Il fascino della scacchiera

Succede che poi arrivano le mode. Se non fossimo in un mondo dove questa parola ormai suscita una notevole inquietudine: le mode sono virali. E certamente il passaparola della serie la Regina di Scacchi sta correndo come nessuno si sarebbe mai aspettato. Ora gli scacchi sono la nuova moda, i nomi dei grandi giocatori del passato suonano come quelli di misteriosi alchimisti di cui si sa poco, e proprio per questo ci affascinano. Le aperture, le difese, i pezzi della scacchiera, le caselle sono diventate un mondo consueto. Non so dire se questa serie avvicinerà le persone al gioco degli scacchi come accadde nelle otto settimane, tra luglio e agosto del 1972 a Reykjavik, quando Bobby Fischer e Boris Spasskij giocarono il campionato del mondo, vinto per la prima volta da un americano. E in quel tempo ci fu una vera e propria febbre per quel gioco.

Dalla sostanza all’estetica
I tempi cambiano, si passa dalla sostanza del gioco, all’estetica del gioco. Nessuno vuole davvero capire cosa sia una difesa siciliana, tutti vogliono vedere il gesto dello scacchista che butta giù il Re. Arrendendosi alla sconfitta. Anche l’ultimo dei dilettanti degli scacchi sa bene che nessuno butta giù il Re quando perde. E forse sa anche che nessun giocatore di livello normale termina la partita con lo scacco matto. Il matto si vede da lontano, è un orizzonte, non un accadimento. Lo sai prima, che perderai, e l’abbandono della partita è una consuetudine.
Ma questa nuova febbre degli scacchi ha qualcosa di sorprendente per un altro motivo. Racconta qualcosa che corre sotto il nostro tempo, dice davvero cosa desideriamo e chi vorremmo essere. Non si tratta di seguire la giovane scacchista americana che sfida il campione del mondo russo. Si tratta di volere un mondo più complesso di quello che ci vogliono far vivere, e che ci hanno voluto far vivere fino a oggi. A parte l’ingenuità di questo Re buttato giù platealmente sulla scacchiera, il resto è una musica di idee, come l’avrebbe chiamata James Joyce. È il fatto che il mondo sia complesso come non avevamo neppure immaginato. Anzi che sia tornato complesso. Abbiamo pensato che tutto dovesse essere semplice e ora di fronte a qualcosa che ci mette le spalle al muro, che cambia le nostre abitudini, che ci impaurisce, riscopriamo questo gioco brutale, terribile, e complicato, che chiede strategia, intelligenza, e non sopporta la superficialità.
La lezione di Reuben Fine

Un grande scrittore come Giorgio Manganelli ha scritto degli scacchi: «Questo gioco arcaico, matematico, simbolico, non ha nulla dello sport: non produce campioni fatti di carne di manzo, non è cordiale, è silenzioso, maniacale, malsano, genera nevrotici protagonisti di un freddo sogno di simboli e tornei, di numeri e di Re». Ma non solo, a un certo punto della serie si parla di Reuben Fine. La nostra scacchista commenta un problema scacchistico di Fine. E fa affiorare questo nome al pubblico più vasto. Reuben Fine è stato un bizzarro signore, di quelli che mi sarebbe piaciuto conoscere. Era nato a New York nel 1914 da una famiglia ebrea di origini russe. E sin da piccolo ha cominciato a giocare a scacchi con grande talento. Fino a diventare molto presto uno dei più grandi scacchisti viventi. Ma di grandi scacchisti è piena la storia. Un po’ più difficile trovare invece un grande maestro di questo gioco che è stato al tempo stesso un importante psicoanalista. E Fine è stato questo: ha scritto nella sua vita molti libri sugli scacchi e molti libri sulla psicoanalisi. E un saggio che mette assieme le due cose, e che si intitola: La psicologia del giocatore di scacchi. Viene ripubblicato di continuo dall’editore Adelphi. Si tratta dell’analisi della mente di una serie di campioni e grandi maestri degli scacchi: da Alekin a Capablanca, da Spasski fino ovviamente a lui, al più eccentrico, a quell’uomo impossibile che fu Bobby Fischer. È un libro vertiginoso perché sfata un luogo comune. Pensiamo spesso che gli scacchisti siano solo delle potenti menti razionali e matematiche, e che il gioco non sia adatto alle menti emotive. E inoltre pensiamo che gli scacchi siano un gioco di strategia, una metafora della guerra, per questo motivo, quando si dice di una persona che è un buon giocatore di scacchi, si intende una cosa soltanto: è qualcuno che sa dove arrivare e sa come farlo nel modo migliore. E invece gli scacchi sono anche una strategia emotiva, istintiva, e la complessità di quel gioco è tutta qui: nel suo mettere assieme, metodo, complessità e passione, calcolo ma anche intuito, irrazionalità tenuta stretta da una logica ineccepibile. Ci siamo comportati come semplici pedoni, ora qualcuno ci suggerisce non tanto di fare il Re o la Regina, che è un’altra banalità, ma di muoverci come il Cavallo degli scacchi. Il pezzo più affascinante, perché l’unico che può saltare, l’unico che non va dritto o in diagonale. Ma è sghembo, sorprendente, spiazzante, come le vite di tutti noi oggi, di tutti noi in questo tempo imprevedibile.
La serie tv: quasi una replica a Bobby Fischer

La regina degli scacchi è una miniserie televisiva drammatica statunitense di sette episodi creata da Scott Frank e Allan Scott e visibile in streaming dallo scorso 23 ottobre su Netflix. Narra la vita di Elisabeth «Beth» Harmon, una bambina di otto anni che a metà degli anni Cinquanta finisce in un orfanotrofio dopo il suicidio della madre. Lì scopre le sue due passioni: gli scacchi gioco nel quale mostra sin da subito un inedito talento che la porta, nel periodo tra l’adolescenza e la maggiore età, a diventare un incontrastato numero uno della disciplina. L’altra sono gli psicofarmaci che le vengono somministrati sin da bambina per stabilizzarne l’umore e nei confronti dei quali sviluppa una pericolosa dipendenza. Il modo di raccontare gli accadimenti, l’ambientazione negli USA degli anni Cinquanta e Sessanta, le partite di scacchi e i demoni di Beth sembrano tratti da una storia vera. In realtà The Queen’s Gambit (questo il titolo originale della serie, ossia «Il gambetto di donna», con riferimento ad una delle più antiche aperture scacchistiche) è basata su un romanzo scritto nel 1983 da Walter Tevis. Il fatto che la protagonista della serie ( interpretata dalla 24enne Anya-Taylor Joy) diventi campionessa degli Stati Uniti a soli 18 anni ha suggerito a molti un confronto con la storia del leggendario Bobby Fischer, che vinse quel titolo a 14 anni e che dominò il mondo degli scacchi durante tutti gli anni ‘60 – una linea temporale che condivide con Beth – con uno stile aggressivo riconducibile a quello della Harmon. C’è inoltre un altro aspetto che collega La Regina di Scacchi a Fischer, ma in netta contrapposizione alla sua figura e soprattutto alla sua esasperata e sbandierata misoginia. In una celebre intervista del 1962 Fischer sostenne infatti che «Le donne sono deboli e stupide se paragonate agli uomini, non dovrebbero giocare a scacchi. Contro un uomo perdono sempre». Da qui la tesi di molti che la serie sia una risposta a Fischer e alle sue opinioni, come ha, anche se non esplicitamente, confermato Walter Tevis. «Considero La regina degli scacchi un tributo alle donne intelligenti», ha dichiarato. «Mi piace Beth per il suo coraggio e la sua intelligenza. In passato molte donne hanno dovuto nascondere il proprio cervello; oggi, per fortuna, non più».