«Il magico incontro tra arte e grande schermo»

I grandi cartellonisti di cinema del passato non sono stati meri vignettisti, anonimi illustratori o grafici pubblicitari, ma artisti, che hanno disegnato figure e scenari memorabili dei film dell'età d'oro della cinematografia, con cui hanno impreziosito le strade delle città, e hanno regalato emozioni agli sguardi incuriositi dei passanti. In quelle raffigurazioni piene di colore, di eleganza, di creatività e di mistero, la gente, infatti, ritrovava non di rado uno spazio per sognare, per evadere con la fantasia e immergersi nel mondo dorato della celluloide e degli osannati divi di Hollywood e di Cinecittà. A Maurizio Baroni, collezionista instancabile di cartelloni e di bozzetti, oltre che di documenti e cimeli storici, di colonne sonore e autentiche rarità (un patrimonio cospicuo ceduto in anni recenti alla Cineteca di Bologna), si deve l'allestimento di varie mostre, nonché l'ideazione e la stesura del pregevole volume da collezione, «Pittori di cinema» (edito da Lazy Dog), che ricostruisce, attraverso i numerosi e accattivanti manifesti del tempo, un quarantennio del grande cinema italiano.

Lei, Baroni, nel libro «Pittori di cinema» passa in rassegna una trentina di cartellonisti cinematografici. Con molti di essi ha coltivato anche rapporti di amicizia. Di chi conserva un più vivo ricordo?
«Li ho conosciuti quasi tutti. L'occasione mi è venuta dalla realizzazione, nel 1995, di un'opera in tre volumi, Platea in piedi, interamente dedicata al cinema italiano. Ricordo Enrico De Seta, allora novantenne, un uomo gentile, raffinato, ancora entusiasta del suo lavoro. Ricordo Silvano Campeggi “Nano” e i fratelli Giuliano e Lorenzo Nistri. E, in particolare, Symeoni, un artista davvero creativo, ma con un carattere spigoloso: di lui mi piace ricordare una furiosa lite intercorsa con Andy Warhol che, a quanto pare, voleva sottrargli la paternità di un bozzetto, Trash, cui teneva oltremodo».
I cartelloni del cinema esercitavano sulla gente un fascino indubbio. Perché?
«Il cinema incarnava un autentico mito popolare, e il cartellone, che doveva enfatizzare in primo piano la posa ammiccante di una seducente attrice (esplicita richiesta delle case cinematografiche), era un veicolo efficacissimo atto a calamitare la curiosità del pubblico; del resto, parte del successo di una pellicola dipendeva proprio dal manifesto. La gente provava un'attrazione quasi magnetica verso le figure leggendarie di Marlon Brando, di Humphrey Bogart, di Paul Newman, e verso quelle irresistibili di Totò, di Alberto Sordi, di Nino Manfredi; dinanzi alle forme delle “maggiorate”, da Gina Lollobrigida a Rita Hayworth a Sophia Loren; di fronte ai volti duri degli attori dei film western di Sergio Leone, ai cavalli di Ben Hur (che Campeggi “Nano” riuscì a imporre contro il volere della MGM) e agli imponenti sfondi dei kolossal».

Nel mare magnum della cartellonistica esaminata variano le tecniche pittoriche. Ce ne può parlare?
«I primi cartellonisti avevano una grande sensibilità cromatica e luministica (Alfredo Capitani, Anselmo Ballester); altri prediligevano una tecnica impressionistica, acquerellata (Ercole Brini, Tino Avelli); altri ancora erano ritrattisti eccelsi (Angelo Cesselon, Rodolfo Gasparri). Vi erano poi coloro che padroneggiavano un vigoroso tratto sintetico, espressionista (Manfredo Acerbo), sottilmente ironico e allusivo (Enrico De Seta, Giorgio Olivetti), di raffinata drammaticità (Lorenzo Nistri), simbolico, venato di inquietudine (Renato Casaro, Mario De Berardinis), onirico e surreale (Rinaldo e Giuliano Gèleng). E vi era chi, dotato di una vena sperimentale, come Sandro Symeoni, riceveva le suggestioni delle più aggiornate tendenze artistiche, della pop-art e della op-art, e chi, come Renato Ferrini e Francesco Fiorenzi, mutuava ispirazione dalla fotografia, attraverso la tecnica del collage e della giustapposizione delle immagini, opportunamente ritoccate».

In che cosa i cartelloni di oggi si differenziano rispetto a quelli di un tempo?
«I cartelloni del passato erano prodotti artigianali, elaborati dal genio creativo e irripetibile dell'artista, che col suo talentuoso gesto pittorico evocava atmosfere da sogno e reinventava il lettering in una suggestiva visione iconica. Con l'avvento della tecnologia digitale, invece, i cartelloni, realizzati interamente al computer, sono divenuti molto più performanti, ma hanno perduto, purtroppo, qualsiasi attrattiva e senso estetico. E questo costituisce, forse, il riflesso della crisi odierna in cui versa il mondo del cinema e dello spettacolo in genere».

In Italia, molti cartellonisti ebbero problemi con la censura. Perché?
«Sandro Symeoni, in particolare, collezionò, nell'Italietta ancora bigotta e reazionaria degli anni Cinquanta/Sessanta, una dozzina di condanne, quasi tutte per oltraggio alla morale. Nel mirino degli inquisitori finirono vari bozzetti: La calda preda, per cui si rese necessaria la sostituzione con materiale fotografico; A ciascuno il suo (dal romanzo di Sciascia), che ritraeva la scena di un bacio tra un uomo e una donna. Per fortuna, però, passarono inspiegabilmente inosservate talune immagini pornografiche contenute nell'articolato bozzetto cubista de I racconti di Canterbury (dalla pellicola di Pier Paolo Pasolini). Inoltre, sono stati giudicati immorali i manifesti del film Miss spogliarello di Arnaldo Putzu, con le immagini di Brigitte Bardot, nonché Salomone e la regina di Saba di Rodolfo Gasparri, con Gina Lollobrigida. Financo la disapprovazione papale non tardò a farsi sentire: gli affissi vennero immediatamente sequestrati, e l'immagine della Lollo rivestì abiti molto più pudichi. Alla base della censura agivano talvolta anche motivazioni politiche. Così, a Symeoni venne contestato dal console francese a Roma il modo irriverente con cui un partigiano algerino, nel manifesto per il film La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, teneva tra le mani la bandiera del suo Stato colonizzatore; questa accusa valse a innescare un increscioso incidente diplomatico».