L’intervista/ paolo miorandi

Il vagabondaggio infinito di Robert Walser

Uno psicoterapeuta italiano ripercorre gli arabeschi del poeta e scrittore svizzero
Incompreso. Robert Walser (Bienne, 1878 - Herisau, 1956) passò gli ultimi trent’anni della sua vita tormentata in una casa di cura.
Francesco Mannoni
11.01.2019 19:39

Nel primo pomeriggio del giorno di Natale del 1956, il corpo senza vita del poeta e scrittore Robert Walser, fu trovato senza vita a causa di un malore a Herisau (dove era ospite dal 1933 del locale istituto psichiatrico), lungo un sentiero di montagna. Ora in un libro che esplora la figura dell’uomo e dello scrittore, «Verso il bianco. Diario di viaggio sulle orme di Robert Walser» Paolo Miorandi (psicoterapeuta, autore di numerosi saggi e presente in varie opere collettanee con il suo contributo specialistico), compie una sorta di pellegrinaggio tra gli scritti e i luoghi in cui lo scrittore ha vissuto ed è morto: percorrendo strade e sentieri in cui Walser il «folle» faceva le sue passeggiate, sembra voler recuperare la sua dimensione, il suo pensiero semplice privo di concettosità.

Professor Miorandi, qual è la matrice originaria della sua passione letteraria verso Robert Walser?

«Penso che i libri, quelli importanti, entrino nelle nostre vite da certe crepe che in un determinato momento si aprono in noi. Ci accorgiamo che in quel libro ci sono parole che dicono qualcosa che faticheremo a spiegare, ma che ci riguarda da vicino e ci tocca in profondità. Per i libri di Walser è stato così. Avevo già letto qualche suo racconto in precedenza, ma solo in un preciso momento i suoi libri hanno trovato la crepa e sono entrati nella mia vita. Lo dichiaro all’inizio del libro: scrivere “Verso il bianco” è stato un atto di gratitudine nei confronti di chi mi ha prestato le sue parole per nominare alcune cose che sentivo agitarsi in me».

Una vita quella di Robert Walser per lo più vissuta in manicomio: la sua opera fu influenzata dalla follia?

«Walser è stato scrittore prima dell’internamento in manicomio dove è arrivato compiuti cinquant’anni. In manicomio ha scritto poco o niente, e solo nei primi tempi. Se il manicomio ha avuto un peso nella sua vicenda umana e letteraria, è stato quello di favorire la sua discesa verso il silenzio, la sua rinuncia alla scrittura, il suo desiderio spesso dichiarato, di scomparire. Quando stava fuori, nel mondo, solo e solitario, ha tentato di far udire la sua particolarissima voce. In manicomio, in mezzo agli uomini con cui aveva deciso di mangiare e dormire, ha scelto il silenzio e la clausura. In questo senso, come ha ricordato Canetti, il manicomio di Walser assomiglia a un convento».

Ma in Walser, quanto era profonda la pazzia?

«Sono convinto che esista una linea di confine mobile tra quella che consideriamo salute mentale e quella che consideriamo follia. Ognuno porta in sé pezzi di follia, talvolta piccoli o ben delimitati altre volte più estesi o messi più in risalto dalle situazioni che incontra nella vita. E ognuno cerca di trasformare il suo personale pezzetto di follia in qualcosa di socialmente accettabile, cerca di trovare un posto dove metterlo senza che faccia troppo male a sé o che dia troppo fastidio agli altri. Le storie di artisti come Walser ci raccontano proprio di questo confine mobile e della ricerca di questo posto».

Fu un vero matto quindi o uno che s’adattava alla follia che gli altri vedevano in lui?

«Vero matto o finto matto? Se uno va a rileggersi le cose che diceva nel corso delle ultime passeggiate con Carl Seelig (scrittore e mecenate svizzero che fu per un ventennio suo compagno di chiacchere e camminate), Walser non sembra per niente matto. E questo nonostante molti anni di permanenza in manicomio che, come è risaputo, potrebbero condurre chiunque alla pazzia. Può darsi che prima dell’internamento Walser avesse avuto qualche momento di difficoltà, ma direi che era la sua intera vita, il suo modo di stare al mondo, ad essere difficilmente comprensibile e accettabile agli occhi dei suoi contemporanei».

La sua analisi della foto di Walser morto sulla neve, tende ad una spiegazione psicologica della fine dello scrittore? In quello che si può ritenere il suo capolavoro, «I fratelli Tanner», Walser cinquant’anni prima descrisse quasi la sua fine. Una premonizione?

«Walser è morto d’infarto, camminando da solo in montagna. Niente di strano dunque. Può capitare, specie in una giornata fredda. Poi ci sono alcune coincidenze che stendono sulla sua morte un velo di poesia e che la rendono struggente. Che fosse il giorno di Natale, che ci fosse la neve e, come ha ricordato lei, che Walser avesse descritto una scena molto simile nel suo primo libro: un poeta che giace morto nella neve. Sono coincidenze, ma le storie vivono di coincidenze, di inaspettate relazioni che si vengono a creare tra le cose. Anche il giorno in cui io ho ripercorso il tragitto dell’ultima passeggiata di Walser è cominciato a nevicare. Il tempo era stato bello fino a due giorni prima, un clima quasi estivo, poi la temperatura si era improvvisamente abbassata. Un’altra coincidenza, ma ciò non toglie che in quel momento, quando è cominciato a nevicare, mi siano venute le lacrime agli occhi».

Che tipo di città le è sembrata oggi Herisau? Qual è stata la sua emozione salendo da Herisau verso il Rosenwald?

«Il mio è stato un viaggio che ha attraversato soprattutto le regioni del mondo interno, quelle fatte di ricordi, sogni, suggestioni letterarie, immagini che affiorano, più che un viaggio alla scoperta dell’Appenzello, la regione di Herisau, o della vicina San Gallo. Rispetto a Herisau, la cosa che mi ha più colpito è stato proprio il manicomio, o come lo si vuole chiamare oggi. Il fatto che ci fosse un manicomio, che fosse in funzione, ordinato, manutenuto, adattato ai tempi, con le vecchie sbarre sostituite da meccanismi a scheda magnetica. E che le segretarie mi fornissero il materiale informativo, caso mai ne avessi bisogno per i miei pazienti. Ero già stato in alcuni manicomi italiani, ma quelli che avevo visitato erano fantasmi di manicomi, talvolta ruderi disabitati, altre volte riattati per altri usi. Ho iniziato l’università quando in Italia è stata approvata la legge sulla chiusura dei manicomi, dopo l’azione innovativa di Basaglia e di altri spiriti illuminati. Quella legge, ma ancor più le idee e le istanze che l’hanno prodotta sono cose che dovremmo tenerci care, per le quali potremmo perfino essere fieri».

Qual è la maggiore sensibilità che promana dalle sue opere? Qual è oggi la reale dimensione letteraria di Robert Walser in ambito mondiale? Lo si apprezza per il suo reale valore?

«Penso che come ogni grande scrittore, ma per certi versi più di altri scrittori, Walser non lasci indifferente il lettore, sia in positivo che in negativo. La sua scrittura è una specie di arabesco, un susseguirsi di visioni e pensieri. La trama non esiste o non è per nulla importante. Un uomo esce di casa, passeggia e poi racconta quello che ha veduto, le cose e le persone che ha incontrato, quello che ha sentito. La scrittura diventa così un infinito vagabondaggio, un continuo perdersi, un andare alla deriva lasciandosi trasportare dalle onde o dalle nuvole. O un modo di raccontare il tempo che passa, la vita che si lascia scorrere senza costringerla dentro ad argini troppo spessi. Chi ama Walser, e sono molti, ne riconosce il valore, se lo tiene caro come un dono ricevuto, come qualcosa di personale, una lettera indirizzata proprio a lui o a lei, da leggere e dimenticare e tornare a leggere».