Antropologia

La battaglia di Bruno Manser: dalla Svizzera al Borneo

La storia triste dell’ecologista basilese che si batté fino all’ultimo per i diritti calpestati dei Penan - Una vicenda dai contorni oscuri che ora ha ispirato anche un film biografico in tutte le sale dal mese di novembre
©Fondo Manser
Piero Capone
08.10.2019 06:00

Era diventato un’icona delle lotte a favore delle popolazioni indigene continuamente minacciate dallo sfruttamento delle materie prime da parte delle multinazionali. Ma di lui non si hanno più notizie da 19 anni. E dal marzo del 2005 è stato dichiarato ufficialmente scomparso, probabilmente morto. Stiamo parlando di Bruno Manser, l'ambientalista basilese impegnato per difendere i diritti dei Penan, popolazione di cacciatori e raccoglitori del Sarawak malese, nell'isola del Borneo. Se fosse ancora in vita, il 25 agosto scorso Manser avrebbe compiuto 65 anni. Ma una cosa è certa: anche da morto avrebbe tutte le carte in regola per essere considerato un eroe ambientalista dei nostri tempi. Qual è la sua storia?

Sulle montagne grigionesi

Fra il 1974 e il 1984, sulle Alpi del Canton Grigioni, Manser impara la «vita autarchica», lavorando come pastore e casaro, dopo avere ottenuto, nel 1973, il diploma presso il Real Gymnasium di Basilea. Sempre a Basilea frequenta uno stage presso il Museo di Storia Naturale, poi diventa geologo e antropologo. Fa spesso viaggi studio all'estero. E proprio durante uno di questi viaggi entra in contatto con i Penan. Affascinato da questo popolo che subiva l’ingiustizia di vedere il suo ambiente vitale sempre più ristretto e minacciato, Manser vivrà con loro per sei anni, a partire dal 1984. Non solo sposando la loro causa e partecipando attivamente alla resistenza non violenta contro la deforestazione selvaggia, ma anche condividendone usi e costumi e imparando bene la loro lingua. Le azioni di protesta promosse da Manser per dare voce ai Penan (blocchi stradali contro le ruspe e le motoseghe dei deforestatori) non erano un fatto esteriore o solo legato ai primi allarmi per il riscaldamento globale: vi era la consapevolezza che i Penan, come altri popoli tribali asiatici, dipendevano dalla risorse della foresta per sopravvivere. Le sue azioni di sostegno certo non erano ben viste dal Governo malese, che incominciò a dargli la caccia, mettendo una taglia sulla sua testa e dichiarandolo «persona non gradita» nel Paese. Sotto la pressione di una serie di minacce, e dopo essere sfuggito all’arresto nel 1986, Manser fu allora costretto a tornare in Svizzera.

Lo sciopero della fame

Dalla Confederazione continuerà a sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale sulla situazione drammatica dei popoli tribali e lo sfruttamento commerciale del legno nelle foreste tropicali. Perciò organizza convegni, scrive libri e, nel 1991, darà vita a Basilea al Fondo che porta il suo nome. A Berna, nel 1993, Manser s’impegna in uno sciopero della fame di 60 giorni sulla piazza Federale, regalando maglie da lui realizzate ai consiglieri federali per indurre il nostro Governo a bandire l'importazione del legno tropicale e chiedere una certificazione di origine per tutto quello importato nella Confederazione. Circa 700 Comuni si adeguano alla sua richiesta, rinunciando al legno tropicale, sotto la spinta dell’opinione pubblica . Le cose non vanno invece bene con il Governo federale che respinge la proposta di dichiarazione di origine: all'epoca erano ancora troppi gli interessi economici in gioco senza che troppo ci si curasse della sostenibilità. Dopo questo periodo come «ambasciatore», malgrado le minacce, il divieto di varcare i confini malesi e la taglia ancora pendente, Manser decise di tornare fra i Penan, che ormai considerava come la sua seconda famiglia: l'ultima volta nel 2000, l'anno della sua scomparsa. Ancora oggi, dopo varie spedizioni per cercarlo, sulla sua sorte rimangono solo ipotesi: potrebbe essere rimasto vittima di un incidente o, chissà, di un’imboscata. Il fratello Erich ha compiuto in questi anni varie spedizioni per cercarlo. L’ultimo a vedere Bruno Manser fu un suo amico Penan di nome Mari, il 25 maggio del 2000, nei pressi dei Batu Lawi Mountain, mentre con uno zaino si apprestava a compiere da solo un trekking. Qualcuno sapeva, lo ha seguito e ammazzato o ebbe un fatale infortunio? Secondo gli attivisti a lui più vicini vale la prima ipotesi.

Sospetti fondati

Per il Tribunale Civile di Basilea, dove è stato istruito il procedimento per dichiararne la scomparsa: «Il grande interesse del Governo malese e delle multinazionali del legno a zittire Bruno Manser è dimostrato». Invece, per Ruedi Suter, autore del libro Rainforest Hero, l’imboscata di qualche agente governativo o mercenario sarebbe l'ipotesi meno probabile vista l'imprevedibilità del suo spostamento. Nel 2012, dodici anni dopo la sua scomparsa, il Governo federale ha riconosciuto il valore delle sue battaglie, approvando la legge sulla dichiarazione di origine del legno importato. Fra i suoi libri in favore dei Penan vanno ricordati Stimmen aus dem Regenwald del 1992 e I diari della foresta pluviale( 2004), scritto durante i sei anni di permanenza nella giungla del Sarawak. A distanza di tanti anni Manser, il «Che Guevara ecologista», è stato ricordato nel documentario The Borneo Case (2016) che incomincia proprio con la sua scomparsa e illustra la drammatica distruzione di circa il 90 per cento delle foreste del Sarawak. È invece di questo 2019 Paradise war - The Story of Bruno Manser (titolo originale Die Stimme des Regenwaldes), un biopic diretto da Niklaus Hilber e interpretato dall'attore elvetico Sven Schelker nel ruolo di Manser, scelto per inaugurare la XV edizione dello Zurich Film Festival. Il film, che ha avuto un budget di 4,6 milioni di franchi, è stato patrocinato dal Fondo Manser.