La dialettica di Adorno e la falsità del tutto

Moriva cinquant’anni fa a Visp, in Vallese, Theodor W. Adorno, il filosofo, sociologo e musicologo più rappresentativo della Scuola di Francoforte e qualcuno disse che era morto di ’68. Passava le estati in Svizzera, ma poiché per lui il tempo libero era solo un’alienante appendice del lavoro, la sua villeggiatura era fatta di studio e scrittura. Tuttavia, in quell’estate del 1969 si doveva anche riprendere dagli eventi recenti, quando si era trovato, suo malgrado, in rottura con il movimento studentesco che aveva fino allora ispirato e sostenuto. In aprile, un gruppo di studentesse irruppe in classe con i seni scoperti, vezzeggiandolo, simulando moine e coprendolo di petali. Adorno ne fu molto turbato, lui che aveva scritto sull’importanza del corpo, non capiva perché l’avessero preso di mira in quel modo. È vero: odiava la musica leggera, disprezzava il jazz (non tutto però), riteneva cinema e tv strumenti di alienazione. Eppure, la sua difesa della cultura «alta» non era snobismo ma critica dell’esistente: la «cultura di massa», spiegava, era in realtà «industria culturale», non era cioè una cultura fatta dal popolo ma solo indirizzata al popolo da un’industria senza scrupoli.
«Non potevo certo immaginare che qualcuno avrebbe voluto applicare il mio modello teorico con bottiglie molotov» disse in un’intervista allo Spiegel poco prima di morire; aggiunse anche di non avere «nessuna paura della torre d’avorio» e così prestò di nuovo il fianco all’accusa di elitarismo. Criticava il «praticismo sterile e brutale» di alcune frange del movimento studentesco anche perché il «fascismo di sinistra», come lo definì Habermas, ebbe di fatto anche tendenze anti-intellettuali, e ogni anti-intellettualismo, per Adorno, è sempre fascista. Così, quando gli studenti occuparono l’Istituto per la ricerca sociale (dove nacque la Teoria critica), Adorno chiamò la polizia. In realtà fu un collega a telefonare, ma questo gli costò l’amicizia di Marcuse. Nelle ultime lettere tra i due traspare l’amarezza di Adorno, che insisteva affinché l’amico venisse a trovarlo in Svizzera per parlare degli eventi recenti, ma alla fine Marcuse non andò neanche al suo funerale.
Benché sia passato alla storia come un filosofo complesso e altezzoso, Adorno non fu affatto un intellettuale distaccato dalla società: non solo interveniva alla radio e sui giornali, ma si occupò anche di politica in senso stretto, ad esempio, pochi sanno che progettò anche una critica al programma di Godesberg, adottato dalla SPD nel ’59, sulla traccia della Critica al programma di Gotha di Marx. Il progetto non andò in porto per vari motivi, indipendenti dalle sue intenzioni.
A ogni modo, la critica sociale traspare da tutta la sua opera. Che si tratti di un confronto tra Schönberg e Stravinskij o di uno studio sulla personalità autoritaria, di un’analisi dell’oroscopo del Los Angeles Times o della critica dell’io-puro nella fenomenologia di Husserl, dell’analisi della musica da film o di un’opera di Wagner, di uno studio su Hegel, su Freud o della denuncia del «gergo dell’autenticità» di Heidegger, in tutti questi ambiti Adorno ha mostrato il carattere socialmente divenuto di ciò che il senso comune ritiene eterno e immutabile. Nella sua filosofia dialettica, il concreto è il substrato dell’astratto, l’oggettività fonda la soggettività, la cultura si cela sotto ciò che sembra natura, ma allo stesso tempo l’astrazione è anche il lato nascosto dell’ossessione per la datità, il soggettivismo sta alla base dell’oggettivismo e la natura concorre a spiegare molto di ciò che appare come cultura. Se, come diceva, «il tutto è il falso», anche il vero è un momento della falsa totalità.