La seconda rivoluzione dell’universo «social»
I social network sono entrati in una maniera così massiccia nella nostra vita che ormai non li vediamo più. Per cui mettersi a discutere se sia giusto che Twitter censuri Donald Trump, se invece sia una vergogna, e se i padroni del vapore dei social possono avere questo potere, se gli deve essere permesso, è solo una parte del problema. Se io infatti utilizzo una piattaforma privata, dovrei stare alle regole del padrone di casa. Se lo faccio quando avrei la possibilità di utilizzare la mia piattaforma istituzionale, so che mi sto affidando a qualcuno. E questo vale per qualsiasi esponente politico che non sceglie di farsi veicolare dai social, dopo aver parlato però sui suoi canali, ma utilizza direttamente dei canali esterni. Ma oggi non vogliamo parlare di questo (di cui si è ampiamente dibattuto sul nostro giornale). Il tema che vogliamo affrontare è un altro. È di qualche ora fa la notizia che sulle pagine di Facebook noi non potremo più mettere «mi piace». L’espressione non è più consona. Ora la società di Menlo Park ha deciso che sulle pagine noi dobbiamo cliccare un pulsante (se lo riteniamo) che dice: «Segui».
L’addio ai «mi piace»
Guardando la cosa nel suo lato più superficiale, sono fac-cende di lana caprina. Cosa ci importa se prima mettevamo «mi piace» e ora mettiamo «segue». Il risultato è sempre lo stesso, la sostanza non cambia. Sulla nostra bacheca appariranno i post di quella pagina esattamente come prima. Ma quella pagina non ci piace più. Semplicemente la seguiamo. Tra un po’ cambieremo anche la parola «like». Non ci piacerà più un post, forse troveranno un altro modo. Perché accade questo? Perché con ogni probabilità il principio di piacere non è più adatto a colossi che influenzano enormemente la percezione collettiva. E questo è un fatto su cui riflettere. Le piattaforme social sono state pensate per raggruppare amici, ritrovarli, per parlare al proprio mondo di riferimento, non per vendere prima prodotti, poi sogni, poi idee, e infine per fare campagne elettorali. Questo è arrivato dopo.
I social hanno costruito tutto il loro potere e successo attraverso un sistema emotivo. Non attraverso un sistema politico o sociale. Quindi era tutto un mi piace, sono triste, sono felice, tutto un cuore, rosso, blu o verde, tutto un gioco in cui il consenso veniva dai propri sentimenti e non da una valutazione di tipo critico. Era evidente che così dovesse essere. Se ritrovavo un vecchio compagno conosciuto alla Columbia University, ormai stabilitosi in Sudafrica e notavo che, come ai tempi del college, restava un appassionato di gatti, e se vedevo che l’ultimo post era il solito gattino che cade nella scatola dei biscotti, mettevo un like, che era una memoria emotiva, che era un sancire una confidenza, il prendere atto di una riconoscibilità del nostro rapporto. Era questo il punto di partenza. Riconoscersi in un mondo disgregato.
Dall’emozione alla politica
Riconoscersi voleva dire condividere. E la parola condividere è proprio una delle parole magiche dei social. Mettere assieme le proprie parti con le parti di qualcun altro: noi conosciamo le sue, lui conosce le nostre, e sappiamo come farle combaciare. Ma – e c’è un ma – i social non li sappiamo più leggere: li trattiamo come fossero degli organi di stampa, li trattiamo come un bene pubblico, tipo l’acqua. Pensiamo che ne abbiamo diritto come l’aria che respiriamo e ci dimentichiamo che ogni volta che decidiamo di iscriverci a un social, dovremmo leggere clausole e note, e accettarle. E se lo facessimo davvero dovremmo impiegarci un paio di giorni e farle vedere anche al nostro avvocato. Il sistema emotivo oggi è diventato un sistema politico, sociale e culturale, e informativo. Ma per anni ha mantenuto il calore emotivo del gattino che cade nella scatola dei biscotti. Per anni i cuori sostituivano tutto. Anche i ragionamenti. Poi il mondo è diventato più duro e più difficile, è un mondo che non ci piace, che ci angoscia e tutti quei like paiono ormai fuori moda, tutte quelle pagine che ci piacciono non sono più opportune. Ora dobbiamo seguire, attenzionare, ripensare il principio di piacere, definito esattamente da Freud in tempi non sospetti. E ci si è ricordati che i social sono società private, piene di clausole, e che non sono la nostra libertà, ma forse assomigliano assai di più a una nostra schiavitù. E non perché dedichiamo troppo tempo a Instagram e Facebook o Twitter. Ma per come dedichiamo loro quel tempo. Come una necessità e non una scelta. Solo rendendoci conto che siamo a una seconda rivoluzione dei social possiamo riuscire a riflettere, a ricominciare da capo, con una domanda precisa: cosa ci facciamo noi dentro i social network? E perché ci siamo finiti dentro come i gattini nella scatola di biscotti?