La storia della Scala da Piermarini a Botta

Della complessa storia architettonica che lo riguarda, pochi tra i frequentatori del Teatro alla Scala sanno. Forse qualcosa intuiscono per via di quelle due torri candide e ipermoderne, quasi aliene, che spuntano dal suo tetto e si vedono se solo ci si allontana di qualche passo verso il centro della piazza, dalle parti della statua di Leonardo da Vinci. Una lacuna che viene ora colmata dalla mostra «La Magnifica Fabbrica. 240 anni del Teatro alla Scala da Piermarini a Botta» promossa dalla Fondazione Teatro alla Scala in collaborazione con Intesa San Paolo (fino al 30 aprile 2019, catalogo edito da Treccani, in vendita presso il bookstore): si parte da chi ne disegnò la struttura originaria per arrivare a colui che ne ha rivoluzionato l’aspetto tre lustri fa. I curatori Fulvio Irace e Pierluigi Panza ricostruiscono le variazioni subite nel corso del tempo dall’edificio, e in parallelo i mutamenti sociali e storici di una città di cui il teatro lirico milanese è parte integrante, nel titolo rimandando a quell’altra «Fabbrica» da secoli operosamente attiva a Milano, il Duomo. Alla mostra si accede passando attraverso le sale del Museo: cariche di vestigia, quadri, costumi, oggetti di scena, programmi di sala e partiture autografate, la mostra ne è un fondamentale completamento. Vi si giunge da una breve rampa di scale che porta alla biblioteca Livia Simoni. Qui, ora, è l’architettura a farla da padrona: foto, quadri, progetti edilizi e schizzi, video, tutto quanto può servire a raccontare la storia di questo grande teatro dal punto di vista delle mura. Tutto comincia con l’incendio che nel 1776 distrugge il Regio Ducal Teatro. I milanesi chiedono a Maria Teresa d’Austria di costruirne due: a loro spese. Uno, la Scala, destinato all’opera (allora di moda molto più di oggi), da edificarsi al posto della chiesa di Santa Maria alla Scala. Da cui il nome del tempio profano sorto sulle sue macerie. Permesso accordato: costava nulla, alla sovrana. Per quanto ricca però Milano era periferia del grande Impero Asburgico: il Vanvitelli che ne era l’archistar declinò l’offerta di progettarlo, raccomandando un giovane protegé, Giuseppe Piermarini. Due anni dopo l’inaugurazione: altro rifiuto, di Gluck, e altro giovane in ascesa, Salieri. Per l’occasione compone «Europa riconosciuta» (replicata nel 2004, direzione Abbado, per l’inaugurazione del «dopo Botta»). È da quel 3 agosto 1778 che inizia la storia che la mostra segue cronologicamente, con molti bei materiali di provenienza diversa. Immagini inattese: la litografia della grande sala che, priva dei sedili della platea, ospita un torneo equestre, cavalli, sabbia, immaginiamo sterco. O l’acquaforte di un affollato e variopinto Carnevale. C’è anche un video di 17 minuti con materiali provenienti dagli Archivi Luce e dalle Teche Rai. Interessante l’animazione fotografica che confronta immagini del prima e dopo i lavori di fine Ottocento sull’area circostante il teatro: il vecchio quartiere e le strette strade, abbattuti, lasciano spazio alla grande piazza, la ristrutturazione del Palazzo comunale, l’edificazione di nuovi, monumentali edifici. Anche il bombardamento del 1943 è raccontato, e poi la fedele riedificazione di quanto era andato distrutto. Fino alla nuova inaugurazione del 1946 con Toscanini e la debuttante Renata Tebaldi. A parte, invece, nel Ridotto dei Palchi, sono raccolti gli interventi firmati Botta. È lui stesso a raccontarli in un video. Qui trova posto anche la grande maquette in legno che riproduce con minuzia una sezione dell’edificio. Ma qui il passato ormai scolora nel futuro: 2022, la (nuova) Scala. Per quanto «nuova», però?
Il fantasma dell’architetto
Mario Botta e La Scala di Milano, atto secondo. Dopo la ristrutturazione del 2004, viene affidato a lui anche il nuovo progetto di ampliamento: dove c’era una palazzina, nella contigua via Verdi, sta per sorgere una nuova struttura destinata a uffici e sale prove. Confinante con il palcoscenico, permetterà che questo cresca ulteriormente, acquisti maggiore profondità: oltre 70 metri. Quando lo incontriamo, in occasione della presentazione della mostra «La Magnifica Fabbrica», l’architetto Botta ci racconta di essere in partenza per gli Stati Uniti: per l’inaugurazione all’Art Basel di Miami di un padiglione che ha disegnato per un noto marchio di prodotti di bellezza svizzero (La Prairie).
L’effimero e l’eterno. L’installazione per pochi giorni e la struttura pensata «per sempre». Di questi tempi, ci racconta, gli hanno commissionato anche una grande moschea in Cina e una sinagoga in Israele. Tra questi «estremi» non c’è contraddizione. «Per il padiglione ho cercato di esprimere valori solidi e molto svizzeri: la precisione dell’esecuzione, la purezza della forma, la forza del materiale (il legno). Quanto a La Scala... Quando mi hanno contattato la mia reazione è stata di stupore. “Ma come: è già ora di rimetterci mano?”». In realtà, spiega, più che di un restauro (che pure ci sarà e riguarderà l’ottimizzazione del suono nella sala mediante l’uso di nuovi materiali), il cuore del progetto 2019 consiste in una nuova ala da aggiungere al corpo esistente ora dominato dalle sue due torri, quella ellittica che ospita i camerini, sul lato sinistro di via Filodrammatici, e il grande parallelepipedo che si innalza sopra all’area del palco. Parte da ieri per raccontare il lavoro odierno. «C’era un disastro di interventi diversi rispondenti solo all’imperativo che non si vedessero dalla strada. Mi sono dato un principio: dalle gronde in giù fare pulizia di quelle superfetazioni con un restauro conservativo; dal tetto invece avrei lasciato che uscissero nuovi volumi ben riconoscibili, testimonianza inequivocabile di una cultura dell’architettura contemporanea. Uno, destinato a rendere più funzionale la macchina scenica, era in qualche modo già “tracciato” dalla pianta sottostante. L’altro, più libero, l’ho pensato come il tiburio di una chiesa». Che fossero così diverse, era frutto di una scelta ben precisa. «Non doveva esserci “rapporto di vicinato”». A vedere gli schizzi, il nuovo edificio, che sorgerà subito dietro la torre scenica, ricorda un po’ la Torre Velasca, che a sua volta cita la torre del Castello Sforzesco. «Anche in questo caso erano necessari grandi volumi. Ci saranno 11 piani fuori terra e 6 ipogei, destinati alla sala prove e registrazioni dell’orchestra». Interventi che faranno discutere anche questa volta? «Qualche notte insonne l’ho passata, confesso. Con il fantasma del Piermarini che veniva a trovarmi, in un atto di solidarietà tra architetti, per ringraziarmi di come con il mio lavoro davo nuova vita al suo». Piermarini di cui, come la mostra dimostra, resta ormai ben poco. «La Scala è uno spazio della memoria che ci riguarda tutti, un lascito, un teatro camaleonte in continua trasformazione. Ma proprio per questo è un teatro che ci parla. Che mi parla: mi sono sentito parte di una storia che altri prima di me hanno contribuito a edificare. Siamo pieni di nuovi teatri muti perché senza memoria. Di un teatro l’architetto non deve considerare solo l’aspetto tecnico-funzionale ma anche quello emozionale: il pubblico viene a sognare e quei sogni hanno bisogno di muri e di memoria».