La strana ossessione di Mussolini per l’inglese

Subito dopo essere divenuto primo ministro, alla fine di ottobre del 1922, Benito Mussolini fu dominato da un vero e proprio rovello, quasi un’ossessione: imparare, e al più presto, l’inglese, in modo da poter scrivere direttamente, senza bisogno di intermediari, ai leader politici d’Oltremanica.
I retroscena del rapporto del Duce con la lingua di Shakespeare sono svelati da un personaggio che conobbe molto bene il dittatore, fin dai tempi dello squadrismo.
Si tratta del giornalista bolognese Giorgio Pini, che dalla fine del 1936 al 25 luglio ’43, fu caporedattore del Popolo d’Italia, il quotidiano mussoliniano, e in quanto tale venne a conoscenza anche di aspetti sconosciuti della personalità del capo del fascismo.
Pini, scomparso nel 1987 a 88 anni, scrisse nel 1959, per il settimanale Candido, diretto da Giovannino Guareschi, una serie di articoli sull’uomo Mussolini, i quali però non furono mai pubblicati.
In uno dei questi pezzi, rimasto fino ad oggi inedito, Pini ricostruisce il complesso rapporto di Benito con le lingue straniere: una vicenda, quella dell’apprendimento dei vari idiomi, che si nutrì più di studi disorganici, frutto della sua iniziativa di autodidatta, che non di approcci scolastici e regolari.
Il giovane Mussolini, infatti, affrontò, da privatista, e talora con la guida di professori titolati, lo studio del latino e del tedesco.
Conseguì, nell’autunno del 1907, all’università di Bologna, l’abilitazione all’insegnamento del francese, lingua di cui fu subito docente, al Collegio cattolico «Ulisse Calvi» di Oneglia, dove tenne una cattedra per alcuni mesi, per poi migrare in Trentino come agitatore rivoluzionario e giornalista.
Prima, però, di partire per la terra del Triveneto ancora sottoposta alla dominazione asburgica, Mussolini, nell’autunno del 1908, sempre nell’ateneo bolognese, cercò di ottenere anche l’abilitazione all’insegnamento del tedesco.
Questa volta, però, venne bocciato: respinto nella versione dall’italiano al tedesco, dopo essere stato approvato, nelle altre due prove, il libero componimento e il dettato. Benito si fece sempre un vanto, della conoscenza della lingua di Goethe, tanto da poterla parlare correntemente, con i suoi vari interlocutori germanici, tra cui, naturalmente, Adolf Hitler.
Giorgio Pini racconta che il suo nutrimento, a tale proposito, erano sia le letture di opere, in lingua originale, sia gli esercizi di traduzione: «È certo che nel ’41 voltò in tedesco alcune pagine dei Promessi sposi. Nella solitudine della sua prigionia a Ponza tradusse alcune Odi barbare di Carducci, che sapeva a memoria, e a Gargnano, nel dicembre ’43, durante la Repubblica sociale, mise in italiano parte del tedesco wagneriano della Valchiria, sotto il controllo del professor Vigoler».
Ma l’aspetto più sorprendente, e rivelatore, consiste nell’applicazione e nella disciplina che Mussolini dedicò allo studio dell’idioma dei britannici, già dall’indomani della sua investitura a primo ministro.
A questo proposito è necessaria una premessa. Il Duce desiderava condurre una propria politica estera, fondata su contatti personali con gli uomini di Stato stranieri con i quali intendeva trattare.
In questo senso, oltre a diffidare della diplomazia di carriera, volle significativamente trattenere per sé la titolarità del ministero degli Esteri, per lunghi anni: dal 1922 al ’29, poi, ancora, dal 1932 al ’36, e, infine, dall’inizio del 1943, fino a tutto il periodo della Repubblica di Salò.
È di grande interesse apprendere, attraverso la testimonianza diretta di Pini, fonte altamente qualificata, quale fosse la motivazione che Mussolini pose alla base della sua volontà di approfondire la conoscenza dell’inglese: essere in grado, non soltanto di sostenere colloqui, senza interprete, con le personalità della Gran Bretagna; ma, soprattutto, sentirsi sicuro di saper scrivere lettere ai suoi interlocutori di Londra, esprimendosi compiutamente nella loro lingua.
Qui è sottinteso un aspetto, che non può sfuggire: il Duce, non soltanto non desiderava che interpreti avessero ad assistere ai suoi colloqui con gli esponenti britannici, ma voleva impedire che i minutanti di Palazzo potessero intervenire, a redigere in bozze, a tradurre, e persino a dattilografare, una sua missiva riservata.
Com’è noto, la sussistenza del famoso carteggio Churchill-Mussolini, oggetto di accanite dispute tra storici, si fonda proprio su una tipologia di corrispondenza che, almeno per la parte italiana, consisteva in lettere, tutte vergate a mano dal Duce, e da questi dirette allo statista conservatore senza intermediazioni, e mediante canali rigorosamente segreti e non ufficiali.
Ma ecco il racconto di Pini: Mussolini, «assunte le funzioni di ministro degli Esteri, volle subito affrontare l’inglese con l’assistenza del giovane diplomatico Mario Pansa, funzionario di Palazzo Chigi. Nel novembre 1922, nel lasciare la Conferenza di Losanna, e nel congedarsi da Lord Curzon [George Curzon, titolare del Foreign Office ed esponente del Partito conservatore, ndr], disse alla moglie del ministro britannico di non essere ancora in grado di scrivere una lettera in inglese, ma si impegnò di giungere a poterlo fare entro breve tempo. Mantenne l’impegno dopo pochi mesi: scrisse la lettera promessa e si mise in condizione di leggere in inglese vari discorsi che doveva pronunciare alle inaugurazioni dei Congressi internazionali in Roma».
Dunque, il fine cui ambiva il capo del fascismo, la sua preoccupazione suprema, era soprattutto di poter alimentare, in tutta sicurezza, modalità di comunicazione irrituali e non intercettabili: in una parola, epistolari top secret.
Aggiunge, nella sua narrazione aneddotica, il giornalista fascista: «il 15 aprile 1937, Mussolini si rivolse nella loro lingua ai membri di una delegazione della “British Legion” (organizzazione degli ex combattenti britannici nella Prima guerra mondiale) ricevuti in udienza a Palazzo Venezia».
Due mesi prima, a febbraio, aveva stupito un gruppo di intellettuali giunti a omaggiarlo dalla Gran Bretagna. Il loro portavoce, il poeta Alfred Noyes, dichiarò infatti entusiasta alla stampa: «Il Duce ci ha detto nel migliore inglese cose che sono state una lieta sorpresa per noi. Egli ci ha parlato di poesia con un accento che non ci si aspetta da un uomo d’azione. Quando Lord Rennell Rodd [James Rennel Rodd, ambasciatore inglese a Roma, dal 1908 al 1919, e grande ammiratore del dittatore, ndr] gli ebbe presentato la nostra comitiva, la parola del Capo del governo italiano non fu per noi quella di un duro uomo di Stato, ma di un umanissimo e antico giudice di poesia».
Ma non è tutto. Pini aggiunge anche che il Duce ricevette in udienza il grande scrittore Gilbert Keith Chesterton (nel 1929), da lui intrattenuto in inglese, e che si esercitasse leggendo, nei testi originali, autori come Charles Darwin, Herbert Spencer, George Byron, Oscar Wilde e, ovviamente, William Shakespeare.