Mostre

La vertigine di Ubaldo Monico, dall’incisione alla pittura

Nella mostra “Verso il colore” all’Atelier Ratti di Malvaglia
Ubaldo Monico. «Senza titolo» (1974), olio su tela, cm. 89,8x88. (© ProLitteris, Zürich)
Dalmazio Ambrosioni
08.03.2019 06:00

L’ampia esposizione di opere di Ubaldo Monico (Dongio 1912-1983) permette all’Atelier Ratti a Malvaglia di confermarsi come sede museale, di ampliare la conoscenza dell’opera di Monico, di rilanciare l’attenzione su quella di Titta Ratti e, per converso, di aggiornare le geografie dell’arte in Ticino. Il tutto è stato ribadito di recente con la presentazione del catalogo, che ha interventi di Carla Ferriroli, Maria Will e Giulio Foletti, curatori della mostra, oltre che di Sofia Marazzi, Cyril Bryan Thurston, amico di Monico e dello scrittore Remo Beretta con i quali esplorò l’altipiano della Greina, Walter Schönenberger e Jean Soldini, autore nell’87 del catalogo generale dell’opera incisa. L’esposizione parte proprio dalle incisioni, sulla base d’una recente donazione e di prestiti: soprattutto xilografie ma anche calcografie. Quindi da quella che Monico stesso definiva «macchia nera», lungo la quale evolve con determinazione dall’ambito figurativo, dalla ripresa del vero, a quello dell’astrazione. In mostra si succedono le prove della rapida formazione, della vicinanza alla rivista milanese «L’Eroica» di Ettore Cozzani, di un’espressione sempre più matura e vien da dire irrequieta. Sin dall’inizio si capisce che cerca qualcosa di suo, di nuovo nell’espressione; già i paesaggi vivono di forti, a tratti lancinanti contrasti creati dall’irrompere del bianco a squarciare il nero d’una realtà che cerca e trova nelle ardite soluzioni prospettiche qualcosa di ulteriore. Una tensione incontenibile, tanto che già sul finire degli anni Quaranta e poi con la serie delle Teste dei primi anni ’50, lascia il figurativo per nuove soluzioni. Non cerca volti e tantomeno fisionomie; la testa, a volte Crapa, diventa emblema di una realtà sempre più interiorizzata e come attraversata da domande che cercano risposta. Dove? Nell’infinito del cosmo e dello spazio interiore dell’uomo. Qui si situano l’inquietudine e la sete di novità di Monico, che lungo tutto il suo tragitto mostra di ben conoscere l’arte moderna, da Cézanne ai contemporanei più innovativi, Wols e Hartung, Vedova e Lucio Fontana. La mostra s’intitola «Verso il colore». Indicazione giusta e prudente perché se è vero che nell’opera incisa il colore è stata una sorta di ultima frontiera, nella pittura è l’elemento distintivo. Negli olii e nelle tempere viene usato non tanto in senso cromatico e tonale, ma come forma. La ricerca sul colore diviene il mezzo privilegiato per definire le immagini, così come prima lo erano le sventagliate di bianco nella realtà nera, ad un tempo poetica e problematica, come in attesa di qualcosa di stravolgente. Grazie a «macchie» di colore, consapevoli e ricercate, fondate sicuramente sulle varie teorie, da Goethe a Kandinskij, cerca testardamente prospettive nuove riuscendo a creare vortici di luce che conducono ad una dimensione interiore e ancor più spirituale. La forma si dissolve, nascono immagini vertiginose caratterizzate da colori chiari. Nel contempo anche la «macchia» delle incisioni viene attraversata, solcata da linee e geometrie chiare, che guardano sì alle rocce della valle ma ancor più sembrano interrogare il cielo, lo spazio, il cosmo, l’infinito. La mostra all’Atelier Ratti di Malvaglia (fino al 10 marzo) attraversa l’intera parabola espressiva di Ubaldo Monico sottolineandone quei caratteri di novità che lo caratterizzano fortemente e lo collegano ad alcune delle stagioni più progressive dell’arte moderna.