Musica

Leo Leoni: «Con i Gotthard ho fatto tredici»

Nostra intervista con il chitarrista ticinese che ci parla del nuovo album della band, «#13», dei suoi progetti collaterali, degli Abba e del suo desiderio di semplicità
Leo Leoni nel suo studio di registrazione. (Foto CdT/Putzu)
Red. Online
20.03.2020 06:39

La musica è uno dei settori più colpiti dal coronavirus. C’è tuttavia chi non si rassegna di fronte al «lock out» generale, rispondendo anzi con un pizzico di ironia. È il caso dei Gotthard, la più amata rock band del Paese che proprio in piena emergenza, ha deciso di dare alle stampe un nuovo album, il tredicesimo della sua discografia, intitolato #13, composto da tredici canzoni e che è stato pubblicato, accompagnato da un inedito showcase online, lo scorso venerdì 13. Ne abbiamo parlato con il leader della band, il chitarrista Leo Leoni che non sembra dunque credere troppo al fatto che il 13 porti sfortuna...

«Assolutamente no (ride....). Non c’è niente di superstizioso o di scaramantico in noi. È comunque vero che il numero 13 nella nostra quasi trentennale storia ricorre spesso. Per cui, in occasione del nostro tredicesimo disco, abbiamo pensato di approfittarne e giocarci un po’: pensa che avevamo scelto il 13 aprile come data d’inizio del tour legato al disco. Cosa che, purtroppo, non sarà possibile fare per l’emergenza sanitaria in corso...»

I Gotthard in versione 2020 (Foto di Franz Scheper)
I Gotthard in versione 2020 (Foto di Franz Scheper)

I Gotthard hanno comunque ugualmente “onorato” il venerdì 13 con un esplosivo showcase dalla vostra sale prova trasmesso in streaming.
«Si tratta di un’operazione che è stata la conseguenza di mille accadimenti. Originariamente la presentazione ufficiale del disco avremmo dovuto farla a Zurigo, ma è stata cancellata dopo le restrizioni adottate nei confronti dei concerti. Allora abbiamo pensato di farlo alla RSI, ma anche qui le cose non sono andate in porto in quanto un paio di componenti del nostro staff venivano dalla Lombardia ed è stato negato loro precauzionalmente l’ingresso negli studi. A quel punto abbiamo detto: perché non presentare il disco con un concerto in streaming dalla nostra sala prove? E così è stato: cosicché mentre tutti chiudevano le porte noi abbiamo aperto le nostre, almeno virtualmente, invitando i nostri fan a casa nostra».

Riscontri dell’operazione?
«Positivi, soprattutto a livello internazionale. Credo infatti che siamo stati tra i primi, a livello internazionale, a rispondere alla chiusura generalizzata dei concerti con un’operazione di questo tipo. Un modo di restare in contatto con il pubblico che in questi giorni molti altri artisti stanno seguendo. Di fronte a questa crisi abbiamo insomma aperto un nuovo canale di comunicazione. Non abbiamo certo inventato l’acqua calda però siamo stati tra i primi ad accendere il fornello sotto un pentolone d’acqua che anche qualcun altro userà per cucinare».

La copertina di «#13»
La copertina di «#13»

Parliamo di #13: composto, come dicevamo, da tredici canzoni in perfetto equilibrio tra energico rock ed eleganti ballate. Un disco che se stilisticamente non porta delle novità nel vostro modo di fare musica colpisce per una caratteristica: la grande energia che pervade ogni singolo brano. Come riuscite, dopo quasi 30 anni di attività a conservare questo spirito?
«Cercando di non ripeterci e soprattutto di essere sempre noi stessi: questa è la cosa più importante e difficile. I Gotthard devono infatti mantenere ben salda la propria identità. Negli anni il gruppo ha infatti dovuto fare i conti con dei cambiamenti che però non devono mai staccarci dalle nostre radici. Che in #13 sono ben presenti proprio grazie all’energia positiva che fa da collante tra situazioni musicali diverse, dalla ballata ai pezzi iper ritmici più classici del rock’n’roll».

Quanto è difficile essere «rock’n’roll» nel 2020, un’epoca musicalmente condizionata dall’elettronica e dai computer?
«Per noi non è difficile visto che, contrariamente a molti giovani colleghi nati con la tecnologia e con diverse metodologie di composizione e registrazione, siamo ancora legati alla vecchia scuola. Quella per cui il computer è semplicemente la macchina che ha sostituito il registratore e per la quale le canzoni si compongono imbracciando strumenti veri, mettendosi a suonare assieme, lavorando sulle idee che vengono fuori in quel contesto finché non diventano un prodotto finito».

Faccio parte di una generazione di musicisti per i quali il computer è semplicemente la macchina che ha sostituito il registratore e per la quale le canzoni si compongono imbracciando strumenti veri

Tra le cose uscite da questo modo di lavorare c’è in #13 anche una incredibile cover di un pezzo degli Abba, S.O.S., che personalmente era l’ultima cosa che mi aspettavo dai Gotthard...
«E invece... Beh, da sempre i Gotthard si sono cimentati con delle cover, dagli inizi con Hush a Come Together, Mighty Quinn, Immigrant Song, Blackberry Way. Tanto che soprattutto nel periodo tra Lipservice e Domino Effect (2005-2007 – ndr) avevamo addirittura pensato di incidere un album di cover. E l’idea di rileggere SOS era già nata lì. Steve Lee era infatti un grande fan degli Abba e quella era la canzone che, anche secondo lui, avremmo potuto rifare alla nostra maniera. Il progetto era poi stato accantonato e la canzone è saltata fuori quest’inverno quando Nic Maeder è stato invitato alla tv svizzero-tedesca a una serata-tributo agli Abba. Ed è rispuntato fuori S.O.S., che Nic in tv ha proposto in modo acustico, con il solo accompagnamento del pianoforte e al quale abbiamo voluto dare una veste più dark e più rispondente – secondo il nostro punto di vista – al testo, che parla di una grande sofferenza emotiva. Spero che nessuno si offenda di quello che abbiamo fatto, in primis gli Abba. Noi comunque ci siamo divertiti a riproporla...».

Leo Leoni negli ultimi anni sta portando avanti due esperienze musicali diverse ma per certi versi convergenti: i Gotthard e i CoreLeoni. Come vive questo doppio ruolo da leader e gli incroci artistici che i due gruppi affrontano?
«Con un po’ di difficoltà per quanto riguarda l’organizzazione degli impegni che non è sempre facile far combaciare. Artisticamente benissimo perché la storia dei CoreLeoni è lunga e va indietro di tanti anni. Questo progetto infatti avrei voluto farlo partire nel 1999 dopo il tour di D-Frosted al termine del quale ho attraversato un momento di crisi: eravamo infatti partiti con l’idea di un tour di un paio di mesi che alla fine erano diventati due anni e mezzo. Inoltre ci stavamo avviando su un sentiero più pop nel quale faticavo a ritrovarmi. Avevo dunque bisogno di una valvola di sfogo più “energica” e da lì era nata l’idea del progetto. Che poi per varie ragioni ho dovuto accantonare finché, dopo tre dischi con Nic Maeder e, sul tavolo, l’idea di Defrost 2 ho rischiato di trovarmi nella stessa situazione. Per cui ho detto ai ragazzi: se posso portare avanti questo progetto, se avrò la possibilità di tirare fuori la mia Les Paul e suonare a tutto volume quando ne sento l’esigenza non avrò problemi nel fare anche tutto il resto, non sarò quello che farà resistenza quando ci sarà da andare a fare tour acustici o con un’orchestra. E così è andata: ho dunque creato questo side-project che è la mia valvola di sfogo e che credo abbia portato benefici a tutti: a me di essere totalmente appagato come musicista ma anche ai Gotthard che hanno sempre a disposizione il Leo più felice del mondo e in grado di ricavare e trasmettere energia da entrambe le situazioni».

I CoreLeoni sono la mia valvola di sfogo che credo abbia portato benefici a tutti: a me di essere totalmente appagato come musicista ma anche ai Gotthard che hanno sempre a disposizione un Leo felice

Si ritiene dunque un artista appagato...
«Ma non arrivato: una volta superato questo difficile momento nel quale dobbiamo cercare il più possibile di aiutarci stando alle regole che ci sono suggerite, spero infatti di tornare al più presto a suonare dal vivo, perché ritengo ci siano tante cose che la musica sia in grado di regalarci, a noi ma anche alla nuova generazione di musicisti che si sta affacciando sulla scena».

Ma le piace quanto propongono gli artisti giovani?
«Ci sono cose che mi piacciono e altre che trovo non abbiano carattere, che siano troppo simili. Questo perché c’è troppa musica in giro fatta da gente che si improvvisa musicista. Ma è una caratteristica della nostra società: si va su internet e tutti si sentono capaci di fare tutto: diventano tutti dottori, giornalisti, musicisti... Se l’elettricità dovesse per caso mancare, molto probabilmente buona parte della musica e degli artisti di oggi scomparirebbe. Con questo non dico che la tecnologia e internet siano un male, ma che andrebbero usati con più parsimonia».

Auspica dunque un ritorno alla semplicità?
«Credo che quanto sta accadendo attorno a noi ci indichi ciò: che dobbiamo tornare a fare le cose meno complesse e più legate alla vita vera. Il che, tradotto in musica, significa tornare ad usare strumenti veri, quelli che si possono usare in mezzo ad un bosco o una sera in riva al lago attorno ad un fuoco, come facevamo noi».