L'Ulisse, James Joyce e il rapporto con Locarno
Le infinite trame dell’Ulisse di James Joyce portano a Locarno. Qui lo scrittore irlandese soggiornò nel 1917 e mise le basi del suo capolavoro pubblicato cento anni fa. Un libro intramontabile che promette di cambiare la vita a chi lo legge. È l’odissea quotidiana dell’uomo moderno che affascina come quella dell’eroe di Omero. «Se dovessi scegliere un punto importante della biografia di James Joyce per quanto riguarda il suo rapporto con Locarno punterei sulla certezza riscontrata che ha scritto grande parte dei primi tre episodi di sei dell’Ulisse nella cittadina sul Lago Maggiore». Lo dice Enrico Terrinoni, 46 anni, nato a Gorizia, romano d’adozione con Dublino nel cuore, traduttore dell’Ulisse per Bompiani che ha firmato la prima edizione bilingue al mondo con testo originale a fronte. L’accademico, titolare della cattedra di letteratura inglese all’Università per stranieri di Perugia e professore distaccato all’Accademia nazionale dei Lincei di Roma, ci spiega inoltre come leggere il «maledetto romanzaccio» per superare l’ostacolo del terzo episodio e giungere alla rivelazione. Il traduttore si concentra sulla breve e luminosa parentesi di Joyce a Locarno e ci svela l’essenza democratica e pacifista dell’Ulisse.
Professor
Terrinoni, che cosa sappiamo del passaggio di James Joyce da Locarno?
«La biografia principale di Joyce scritta
da Richard Ellmann riporta molti dettagli ricavati parlando con diverse persone
incontrate. Sappiamo dalle lettere dello scrittore che lui andò a Locarno per tre
mesi nel 1917, da ottobre fino a capodanno all’incirca, e raggiunse la moglie
Nora Barnacle. Per quanto riguarda invece le storie avvenute stando allo
studioso abbiamo due episodi interessanti; la conoscenza di Joyce della giovane
dottoressa Gertrude Kaempffer, di cui si invaghisce
e che prova a sedurre, senza riuscire, in maniera anche abbastanza buffa
e qualche mese dopo, durante il suo ritorno per pochissimi giorni con l’amico
Frank Budgen, l’incontro con la baronessa Antoinette de Saint Léger. Il
biografo ci dice che Joyce si fa prendere molto dall’idea che questa donna pare
abbia seppellito sette mariti, mentre in realtà sembra che ne abbia avuti solo
tre. Sulla questione dei modelli per i personaggi dell’Ulisse starei molto
attento. Sul discorso relativo alla dottoressa Gertrude è molto probabile che
ci sia qualche legame, mentre altre cose invece sono più difficili da acclarare
dal punto di vista storico- scientifico».
Quanto c’è ancora da
scoprire a proposito della parentesi locarnese di James Joyce?
«Conosciamo duemila lettere di Joyce, ma ce
ne sono altrettante in corso di pubblicazione che solo gli studiosi, che se ne
stanno occupando, hanno sotto gli occhi. In futuro ne sapremo molto di più
anche dei mesi di Locarno che sono per noi i più importanti perché Joyce ha
scritto qui gran parte dei primi tre episodi dell’Ulisse. La cosa fondamentale
è che lui, per questioni di salute, si
ritira da Zurigo dove stava per evitare la guerra e in questi primi tre episodi
mette l’impianto teorico e ideologico del pacifismo dell’Ulisse che è un libro
contro tutte le guerre».
Quelli scritti a
Locarno sono episodi fondanti dell’opus magnum di James Joyce?
«Sì, sono i primi tre episodi della «telemachia»
che riguarda il personaggio di Stephen Dedalus che corrisponderebbe a Telemaco,
mentre Leopold Bloom corrisponde a Odisseo, che è il papà di Telemaco. In quei
mesi e nel periodo precedente la
partenza per Locarno Joyce aveva avuto un’operazione agli occhi e stava
malissimo, ma aveva maturato un’intuizione fondamentale relativa proprio al
fatto che l’eroe mitico Odisseo era un pacifista e non voleva partire per Troia
infatti si finse pazzo, ma venne smascherato e fu costretto ad andare in guerra».


Quanto è
importante la figura di Stephen Dedalus nell’Ulisse?
«Stephen non è solo un nome o un
personaggio, ma era lo pseudonimo con cui Joyce si firmava da giovane. Lo
scrittore utilizza questo nome anche nei mesi di composizione dell’Ulisse e quando
scrive a Ezra Pound che gli ha fatto fare la svolta. Stephen Dedalus appartiene
a Joyce dal punto di vista biografico, è lui stesso da ragazzo, è il trait
d’union tra il Ritratto dell’artista da
giovane e l’Ulisse».
Quale importanza
ha avuto il Canton Ticino con la sua
atmosfera nella stesura dell’Ulisse?
«Quando i venti di guerra si avvicinano Joyce se ne deve andare da Trieste
e sceglie un'altra località. Non lo fa per vigliaccheria, ma perché ha bisogno
di proteggere la sua famiglia e di scrivere. La sua politica è la scrittura e a
Locarno gli capita di avere questa possibilità. C’è anche un bel resoconto
biografico secondo cui Joyce, i primi giorni a Locarno, si trovava molto bene. Pensava persino di trasferirsi in maniera stabile, poi dopo un po’ vide che la
cittadina offriva pace e tranquillità. Forse anche troppa. E cominciò a fare dei
viaggi a Zurigo. In quei tre mesi in cui stava a Locarno Joyce andava spesso anche a Zurigo perché aveva bisogno del caos, per creare però la tranquillità che vive nel periodo di convalescenza. Una tranquillità che gli
consentirà di comporre i primi tre episodi dell’Ulisse».
Che legame c’è
tra l’Ulisse e Finnegans Wake di cui lei
ha tradotto gli ultimi due libri insieme a Fabio Pedone?
«La critica tende a vedere questi due libri
come uno la continuazione dell’altro, ma anche in contrasto tra loro. Si parla
di Ulisse come il libro in cui affiora alla luce del giorno tutto ciò che è
represso e invece di Finnegans come il libro della notte. Joyce nella Veglia si
prefigge di raccontare per la prima volta nella letteratura un sogno caotico,
senza un inizio e una fine, in cui si mescolano le lingue e i personaggi. Dal
punto di vista stilistico Finnegans è una moltiplicazione all’infinito della
complessità dell’Ulisse, però è parte di uno stesso progetto che vuole dire a
tutti la verità».


Che rapporto aveva
Joyce con Zurigo, che ancora custodisce le spoglie mortali dello scrittore
irlandese?
«Joyce odiava e amava i luoghi in cui
viveva: da Dublino, a Roma e Trieste. Zurigo invece sembra più amata che odiata.
Lo scrittore si trasferisce nella città sulla Limmat nel momento forse più
felice della sua vita dopo tanti anni di difficoltà, quando inizia ad avere qualche
soldo perché ha una mecenate importante e le sue opere cominciano ad essere
pubblicate. La sua fama di scrittore internazionale si consoliderà a Parigi ma
qui si scontrerà con il dramma dei figli e con le difficoltà familiari. Joyce si
trova a Zurigo in un momento storico in cui ci sono altri espatriati, come
Lenin e Tristan Tzara, che volevano stare lontani dalla grande guerra».
Chi era Frank
Budgen ?
«Budgen per Joyce è stato tante cose: un
factotum, l’amico, il confessore, quello che gli presta l’appartamento per i
suoi incontri erotici, l’unico interlocutore con cui riesce a parlare
dell’Ulisse. Come negli anni triestini c’era stato Italo Svevo, negli anni
zurighesi c’è stato Frank Budgen».
Che cosa racconta di
Joyce a Roma nel suo libro Su tutti i vivi e i morti (ed. Feltrinelli)?
«Quei sette mesi e sette giorni dall’agosto
1906 al marzo 1907 in cui Joyce non scrive sostanzialmente nulla, se non
tantissime lettere al fratello, legge molto e ha due intuizioni fondamentali;
quella di comporre qualcosa che ha per titolo Ulisse e il racconto The dead, che conclude Dubliners, nato nei mesi romani che
riguarda tutte le sue città. Joyce parlava di Roma sempre in termini di
immagini cimiteriali. The dead si
chiude con una scena di una enorme nevicata che copre un cimitero irlandese. In
quei giorni a Roma stava nevicando, qualcosa che non accade mai. Nel momento più
oscuro della sua vita Joyce sviluppa delle idee che rimarranno nella storia».


Chi è il suo
Joyce?
«Il mio Joyce è quello del popolo. Questo
scrittore è stato quasi privatizzato dagli intellettuali. L’accademia
angloamericana ne ha fatto un oggetto di vivisezione. Quindi si è accresciuta
la fama che i suoi testi fossero illeggibili. Invece Joyce non scriveva per gli
intellettuali, ma per il popolo ed era convinto, quasi in senso gramsciano, che
fosse la gente a doversi elevare alla sua complessità e non lui a doversi
abbassare perché semplificare il significato l’esistenza con la letteratura è
una truffa».
Come ha impostato
la sua traduzione dell’Ulisse?
«Ho tradotto Ulisse due volte, la prima in
edizione libera economica, per Newton Compton, accettando un’operazione a
larghissima diffusione. Poi dopo dieci anni, con l’editore Bompiani, abbiamo pensato di dire che libri come l’Ulisse
vanno letti in traduzione, ma soprattutto con una sorta di stampella che è la
lingua originale, per cui abbiamo fatto la prima traduzione al mondo con il
testo a fronte».
In che modo si
dovrebbe leggere l’Ulisse?
«L’arte di Joyce, come dice Gabriele
Frasca, traduttore e poeta, fuoriesce dalla letteratura. I suoi libri non li
puoi esaurire in una settimana o in un mese.
È necessario applicare lo «slow reading» ovvero la «lentura». Il
problema dell’Ulisse è il terzo episodio, un monologo interiore oscurissimo. I
lettori in genere si fermano qui e si perdono il quarto episodio in cui c’è Bloom,
il personaggio più interessante della letteratura moderna e contemporanea.
Joyce è come se dicesse: se volete la rivelazione, superate l’ostacolo. Consiglio
ai miei studenti di leggere questo libro come se fosse un cd, partendo dalle canzoni
più belle per poi apprezzare le altre. Nell’Ulisse il primo episodio e il quarto avvengono alla stessa ora, così
come il secondo e il quinto episodio, e il terzo e il sesto episodio. Consiglio
di leggerli contemporaneamente».
Come è riuscito a
rendere più accessibile la lettura dell’Ulisse?
«Joyce ci dice che questi episodi hanno un
orario ben preciso. Se si osservano ci si rende conto che l’Ulisse ha
esattamente due inizi. Tanto è vero che nel primo episodio e nel quarto sia
Stephen, che si trova a sud di Dublino, che Bloom che sta a nord della città,
vedono la medesima nuvola, qualcosa di ineffabile e di mutevole, ma da due
prospettive diverse, nello stesso attimo».
