L'intervista

«Quando la disobbedienza civile fa bene al sistema democratico»

A tu per tu con Federico Zuolo, professore di Filosofia politica all’Università di Genova, autore del libro "Disobbedire. Se, come, quando" (Laterza)
Fabio Pagliccia
02.08.2024 06:00

La disobbedienza civile è un atto di trasgressione della legge che trova una sua legittimazione. Essa è una pratica antica, da sempre presente nella vita delle democrazie, la cui fonte principale di giustificazione è l’esistenza di una legge morale distinta dalla legge imposta dall’autorità politica, e ad essa superiore. Nel libro Disobbedire. Se, come, quando (Laterza), Federico Zuolo, professore di Filosofia politica all’Università di Genova, analizza questo tema ancora più che mai attuale, che non sempre l’opinione pubblica, però, è in grado di comprendere e giudicare.

Abbiamo rivolto all’autore alcune domande.

Federico Zuolo, quali caratteristiche presenta la disobbedienza civile?
«La disobbedienza civile è una violazione della legge che serve per segnalare un’ingiustizia, quando i canali ordinari di protesta ed espressione democratica sono stati esauriti. In un certo senso, è un grido d’allarme per mandare un appello alla politica e alla maggioranza. Per essere credibile deve quindi essere fatta in pubblico e senza un vantaggio personale di chi disobbedisce».

La disobbedienza civile annovera una storia lunga, che affonda le radici sin nell’antichità. Chi sono stati i primi disobbedienti della Storia?
«Se intendiamo la disobbedienza civile come uno scontro tra il dovere di rispettare la legge e i principi morali della coscienza, il primo riferimento è quello di Antigone, nell’omonima tragedia di Sofocle. Ma è solo con gli Stati liberali e democratici del XX secolo che emerge la disobbedienza civile vera e propria come strumento di lotta politica, che cerca di combinare questioni di principio con l’esigenza di convincere la maggioranza ».

Il problema se sia lecito infrangere le leggi, e in quali circostanze sia possibile, ha animato anche il dibattito filosofico. Potrebbe richiamare qualche posizione a riguardo?
«Nel dibattito filosofico questo viene definito il problema dell’obbligo politico. Ci si chiede se sia doveroso rispettare le leggi in quanto leggi, cioè a prescindere dal loro essere giuste o utili. Infatti, secondo alcuni abbiamo un dovere di rispettare le leggi solo nella misura in cui sono, in ultima analisi, utili o giuste. Se è così, però, la doverosità legale non aggiunge molto. Secondo altri, invece, c’è un vero e proprio obbligo politico perché lo Stato ha un’autorità capace di generare obblighi ulteriori rispetto alla semplice utilità o giustizia delle leggi. Questo campo, a sua volta, è diviso in prospettive molto diverse. L’autorità dello Stato può essere basata sull’idea che gli individui volontariamente la accettano, oppure sul fatto che volenti o nolenti ne traiamo beneficio, o sull’idea che dobbiamo fare la nostra parte cooperando con gli altri (fair play). In ogni caso, l’obbligo politico deve mantenere un rapporto con la giustizia, e nessuno pensa che si debba rispettare uno Stato radicalmente ingiusto. Più difficile è stabilire che cosa fare quando uno Stato accettabile (perché rispetta i diritti ed è democratico) mantiene leggi ingiuste. Da qui nasce il dibattito sulla disobbedienza civile. Secondo alcuni pensatori, è ammissibile moralmente pur non garantendo un diritto giuridico. Perciò, può essere legittimo punire la disobbedienza, anche quando i disobbedienti sono giustificati nella loro azione».

Ancora oggi i grandi movimenti di disobbedienza civile guardano a Gandhi e a Martin Luther King come a due fari. Perché? Ritiene casuale che entrambi questi leader, profeti della non violenza, abbiano ricevuto una forte impronta religiosa?
«Gandhi e Martin Luther King sono due fari perché rappresentano degli esemplari di integrità morale, che è anche riuscita ad essere politicamente efficace nel portare avanti due cause sacrosante: l’indipendenza dal colonialismo inglese e la battaglia per i diritti civili negli Stati Uniti. È vero che in Gandhi e in Luther King non possiamo dimenticare la dimensione religiosa. Ma al giorno d’oggi le questioni valoriali che sono invocate da chi pratica la disobbedienza (ad esempio, clima, migrazione, diritti animali) sono indipendenti dall’ambito religioso».

Lei nel suo libro analizza anche il fenomeno della «disobbedienza incivile». Che cosa intende con questo termine? Potrebbe fornirci qualche esempio?
«L’idea di disobbedienza civile “classica” è quella elaborata da John Rawls nella sua famosa Una teoria della giustizia. Rawls insisteva molto sull’idea che la disobbedienza, per essere moralmente legittima, fosse civile, non-violenta e fatta in pubblico. Secondo alcune nuove prospettive però dovremmo ammettere che anche forme di disobbedienza incivile possono essere giustificate, purché rimangano nonviolente».

Negli ultimi anni si sono affermate, a livello globale, nuove pratiche di disobbedienza. A quali istanze aderiscono?
«Secondo una forma più radicale di attivismo, la disobbedienza civile va superata perché la maggioranza a cui si rivolge non è disposta al cambiamento, che si potrebbe ottenere, invece, con azioni di disobbedienza che impongono dei costi o risolvono un problema. Queste azioni, solitamente chiamate direct actions, intervengono direttamente, non cercano di mandare un segnale. Benché ci siano forme ibride di disobbedienza (che mandano un messaggio e allo stesso tempo cercano di risolvere un problema) in generale l’opinione pubblica dovrebbe valutare diversamente i due fenomeni. In fondo, la disobbedienza civile, quando è fatta per una giusta causa, è un modo di comunicare, anche se fuori dalla legalità, e quindi è un modo per riconoscere l’importanza del dialogo democratico. Le direct actions, invece, non si pongono il problema dello scambio democratico. È chiaro che, senza inneggiare alla facile disobbedienza, le democrazie dovrebbero preferire le prime alle seconde».