L’Italia che cambia nelle canzoni di Lucio Dalla
Ancora musica sugli schermi della Berlinale 2021: dopo il documentario su Tina Turner, è toccato a Lucio Dalla, il cantautore bolognese scomparso nel 2012 che proprio oggi avrebbe compiuto 78 anni. Diversamente da Tina, Per Lucio di Pietro Marcello è un abbozzo poetico ed affettuoso che non ha la pretesa di raccontare l’intera parabola artistica ed umana di un personaggio poliedrico, sorprendente e per molti versi ancora segreto. Il regista di Martin Eden e di La bocca del lupo compie alcune scelte drastiche ma acute. In primo luogo, tra tutti coloro che avrebbe potuto intervistare privilegia due personaggi che hanno conosciuto il Dalla uomo oltre che l’artista: il manager di tutta la sua carriera, Umberto Righi detto Tobia, e l’amico d’infanzia, nonché filosofo, Stefano Bonaga. Pesca poi le immagini che compongono il film non solo tra i documenti relativi al cantante (concerti, interviste, trasmissioni televisive) ma anche in una miriade di archivi pubblici e privati, costruendo così due narrazioni parallele: quella della carriera di Dalla e quella dell’Italia del dopoguerra con gli enormi cambiamenti culturali e sociali che attraversa (il tramonto della civiltà contadina, l’emigrazione verso le grandi città del Nord). Infine, mette l’accento sul periodo in cui Dalla ha collaborato con il poeta bolognese Roberto Roversi, la fase più intellettuale (e di minor successo) della sua vita artistica. Per Lucio ci presenta quindi un ritratto privato di Dalla (con la sua forte personalità che lo portava a voler sempre aver ragione ma anche la sua innata capacità di essere sensibile e aperto a tutte le anomalie della vita) ma il film è anche la dimostrazione lampante di come il mondo poetico del cantautore si rispecchi quasi parola per parola nella realtà da cui ha preso ispirazione. Anche se ciò non significa che Pietro Marcello illustri pedissequamente le canzoni con le immagini più scontate. Al contrario, se Dalla aveva nella sorpresa la sua arma migliore, il regista lo eguaglia, rendendo il film un percorso mai banale né agiografico.
«Petite maman» in concorso
Dopo il successo al Festival di Cannes 2019 del suo affascinante Portrait de la jeune fille en feu, Céline Sciamma è una delle registe francesi sulla cresta dell’onda. Petite maman, in concorso alla Berlinale, è un «piccolo film», che parla in primo luogo al pubblico dei più piccoli, ma che sa sedurre anche gli adulti. La storia è molto semplice: Nelly (9 anni) ha appena perso la nonna materna alla quale era molto affezionata. Insieme ai genitori, inizia a svuotare la casa dove è cresciuta la madre, ma improvvisamente e senza motivo quest’ultima se ne va. La bambina esplorare i dintorni e nel bosco incontra una coetanea (Marion) con la quale stringerà una forte amicizia. Ma chi è davvero Marion? Céline Sciamma non ce lo dice apertamente, ma semina numerosi indizi: Marion non è altri che la mamma di Nelly da bambina e quest’ultima è quindi una presenza dal futuro in un mondo fuori dal tempo, reso credibile da una di quelle magie che il cinema rende semplici. E a questa piccola magia contribuiscono le due giovanissime interpreti (Josephine e Gabrielle Sanz) che nella vita sorelle lo sono per davvero.