Lucia Calamaro: «Parlo di solitudine con un attore che ho scelto per empatia»

Si incentra sul tema della solitudine Si nota all’imbrunire, l’ultimo spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro, una delle più feconde e interessanti drammaturghe del teatro contemporaneo italiano. In scena un malinconico e ironico Silvio Orlando, che interpreta il ruolo di un padre di famiglia il quale, dopo la scomparsa della moglie, si è ritirato in un paesino sperduto, sempre più isolato e sempre più perseguitato da manie eccentriche. Come l’ultima, quella di non camminare. Il pubblico luganese ha già avuto modo di saggiare l’impressionante bravura drammaturgica di Lucia Calamaro in spettacoli come L’origine del mondo e La vita ferma: una scrittura sregolata e al tempo stesso veloce, trascinante - non a caso Christian Raimo l’ha definita «un genio». Per parlare di questo nuovo lavoro, in cartellone al LAC martedì 2 aprile (replica la sera dopo, informazioni www.luganoinscena.ch), abbiamo raggiunto telefonicamente la regista.
In questo spettacolo affronta il tema della solitudine. Come mai proprio questo argomento? È qualcosa di attuale, su cui vale la pena soffermarsi?
«La solitudine è sempre stata una mia preoccupazione: da quando sono bambina nutro una grande empatia e tenerezza verso le persone sole. Le quali, purtroppo, si stanno moltiplicando, invece di ridursi. La figura interpretata da Silvio Orlando è simbolica: Silvio è una persona di una certa età, ma non è solo l’anzianità a essere colpita da questo problema. Le persone molto sole sono il risultato di una tendenza individualista che sta prendendo sempre più spazio malgrado la volontà dei singoli, che rimangono incastrati in alcuni meccanismi non perfettamente messi a fuoco e che si trovano ad essere isolati e infelici. Per quanto io sia una persona tendenzialmente solitaria, non amo questa solitudine imposta socialmente: da qui nasce la voglia di parlarne a teatro».
Un altro elemento che emerge in questo spettacolo è la famiglia. Magari la mia percezione è erronea, ma mi pare un tema non centralissimo nella produzione teatrale contemporanea. Nel suo teatro, invece, costituisce una fra le priorità.
«In questo spettacolo la famiglia in realtà è un pretesto, nel senso proprio di “pre-testo”, una base su cui costruire il resto, ovvero il tema della solitudine. C’è una bellissima frase di Cechov, il quale diceva: “Se temete la solitudine, non sposatevi”. La famiglia non è una protezione, non è una garanzia rispetto al non sentirsi soli. Mi serviva una struttura in cui questa sensazione fosse ancora più accentuata, perché i legami familiari apparentemente dovrebbero aiutare in questo senso. Più che un tema, quindi, quello della famiglia è un mezzo per parlare di questa tematica, che sotto questa luce diventa ancora più amara».
Mi colpisce il fatto che gli interpreti nei suoi spettacoli mantengano il loro nome all’anagrafe. Silvio Orlando in Si nota all’imbrunire è semplicemente Silvio. Qual è il senso di questa scelta?
«Tendo a scegliere gli attori per empatia verso l’essere umano che sono. Questo mi rende impossibile cambiar loro nome. Silvio è Silvio, non vedo perché dovrei chiamarlo Antonio o Giuseppe. La persona funziona come basamento per il personaggio. Il bioritmo degli attori, la loro energia, quello che portano in scena anche fisicamente creano un impatto che costruisce il personaggio».
Che cosa l’ha colpito a livello umano di Silvio Orlando?
«Come tutti, ho visto Silvio in molti film. Al di là di trovarlo bravissimo, mi è sempre stato molto simpatico e questo crea delle premesse positive. Il lavoro che ha fatto su questo Si nota all’imbrunire è straordinario: è letteralmente caduto dentro il personaggio, che un po’ gli somiglia, perché possiede un lato dismesso, ironico e amaro allo stesso tempo. Non è certo un entusiasta della vita, come non lo è lo stesso Silvio Orlando».
In fondo anche la scrittura ha a che fare con la solitudine. Vorrei entrare nel suo laboratorio di autrice. Come parte il suo lavoro? E come va avanti?
«Tutto parte da un tema che mi colpisce: di solito si tratta di un problema, non è una cosa risolta, altrimenti non ci sarebbe nemmeno bisogno di pensarci. Lentamente poi scrivo pezzi molto liberi, che in un secondo momento adatto a seconda degli interpreti, trasformando quelli che per esempio erano nati come dialoghi in monologhi, scene mute in scene parlate, e viceversa. Accumulo materiali, prendo appunti: la cucina, invece, il montaggio, lo faccio in sala prove».
Pensa che al teatro contemporaneo manchi qualcosa?
«Vedo molti autori e autrici interessanti, ma non sta a me rispondere. Questa è una domanda per un critico».