Ma i sottotitoli di Squid Game sono sbagliati?

Netflix e le altre piattaforme streaming hanno un problema con i sottotitoli? Sì, no, forse. La mondializzazione dei contenuti, se così vogliamo chiamarla, a detta di molti non sarebbe accompagnata da traduzioni precise e puntuali. Gli anglosassoni usano un’espressione, al proposito: lost in translation. Già, qualcosa sembrerebbe perdersi. Tanto nel doppiaggio quanto, appunto, nella sottotitolazione dell’audio originale.
Il problema è noto da tempo. Con Squid Game, il più grande successo del colosso statunitense, capace di guadagnare il primo posto delle serie tv più viste in novanta Paesi, è tornato di strettissima attualità. C’è chi, addirittura, si è chiesto se Netflix stia investendo abbastanza nella creazione di sottotitoli. Della serie: quando una serie non è in lingua inglese, beh, sono guai. Sono guai, a maggior ragione, se pensiamo che fra i recenti successi di Netflix ci sono idee concepite lontano dagli Stati Uniti: Francia, Spagna e Germania, solo per citare i vari Lupin, Elite e Dark. C’è chi, addirittura, spera di imparare una lingua nuova guardando una serie. Su Google, la domanda «Posso parlare fluentemente una lingua solo guardando la TV?» produce qualcosa come 10,4 milioni di risultati.
Uno spettacolo differente
Il dibattito attorno ai sottotitoli di Squid Game sta tenendo viva la rete. Youngmi Mayer, co-conduttore del podcast Feeling Asian, è categorico: «Se non capisci il coreano, sei di fronte a uno spettacolo differente» racconta al Guardian. Mayer ha pure pubblicato un video su TikTok in cui ha svelato i tanti difetti dei sottotitoli che accompagnano la serie. Difetti che, per alcuni, sconfinano perfino nel territorio dei pregiudizi culturali e politici. «Netflix è noto per le sue deboli traduzioni di drammi coreani» fa notare, su Slate, Sharon Kwon. In particolare, il personaggio di Ali si rivolge agli altri usando il termine «signore». Nella versione originale, tuttavia, quel signore è riconducibile alla parola e al concetto di boss. Capo, sì. Il messaggio anticapitalista della serie, così, verrebbe meno.
Più impegno, per favore
Netflix, leggiamo su vari portali, sembrerebbe più interessato al doppiaggio che ai sottotitoli. Strano, sostengono in molti. Tra il 2015 e il 2020, il colosso ha investito 700 milioni di dollari in prodotti coreani. Solo quest’anno ne sta investendo 500 milioni. Una traduzione accurata, beh, dovrebbe essere prioritaria. E anche il doppiaggio, di per sé, presenta non pochi problemi. Primo: una frase deve essere tradotta in modo tale che occorra la stessa quantità di tempo per pronunciarla rispetto all’originale. Secondo: se esiste una possibilità di far (più o meno) combaciare il movimento delle labbra alla frase tradotta, è bene coglierla.
L’abbondanza di contenuti, complice l’esplosione delle piattaforme streaming, ha generato di riflesso una crisi a livello di sottotitolazione. Ovvero: ci sono troppe poche persone per tradurre così tante serie in così tante lingue. E, proprio come nel doppiaggio, quando si preparano dei sottotitoli bisogna rispettare la velocità di lettura media dello spettatore. Oltre, anche qui, ai movimenti delle labbra dell’attore. Logico, quindi, prendersi determinate libertà. Logico ma sbagliato, tant’è che Youmee Lee – un artista americano di origini coreane, sordo – desidera che Netflix e gli altri servizi di streaming si impegnino di più nel processo di traduzione. Sembrerà una questione di poco conto. In realtà, per chi si affeziona a uno show una parola sbagliata può fare tutta la differenza del mondo. Nel bene come nel male.