Ma se gli sceneggiatori scioperano posso ancora guardare il mio show preferito?
Lo avevamo detto, ricordando l’ultimo, grande sciopero degli sceneggiatori nel 2007. Adesso è ufficiale: migliaia e migliaia di professionisti cinematografici e televisivi di Hollywood, sfumato un accordo in extremis con i maggiori studios, hanno incrociato le braccia. Ahia. E adesso? Che cosa succederà alle nostre serie preferite e ai film in lavorazione? Proviamo a fare chiarezza.
Di che cosa parliamo
Ogni tre anni la Writers Guild of America, il potente sindacato che rappresenta circa 11.500 sceneggiatori, negozia un nuovo contratto collettivo con i produttori. I citati studios, già. A questo giro, esperti e analisti avevano sottolineato già tempo fa il rischio di arrivare a uno stallo e, appunto, a uno sciopero.
La produzione televisiva, in effetti, nell’ultimo decennio ha conosciuto una rapida ascesa. Al netto dei discorsi circa la fine delle serie TV, colossi come Netflix o Amazon hanno investito miliardi nelle piattaforme di streaming e lo stesso hanno fatto attori classici, come Disney. Tutto molto bello, si dirà, se non fosse che i compensi degli sceneggiatori sono rimasti fermi al palo. E così, i leader della WGA hanno lanciato l’allarme: il sistema, così com’è strutturato, non funziona. O, meglio, non rende giustizia alla scrittura televisiva e cinematografica. La cui sopravvivenza, citiamo la WGA, è in pericolo.
Lunedì, in tarda serata, a un niente dalla scadenza del precedente accordo, le parti sembravano ancora distanti. Molto distanti. Banalmente, ciò che chiedono gli sceneggiatori non collima con ciò che offrono gli studios. I quali, un po’ per difendersi e un po’ per evitare di passare per i cattivi della situazione, hanno spiegato di aver incluso nella loro offerta «generosi aumenti». Aumenti che, tuttavia, non hanno smosso la WGA, secondo cui gli studios hanno mantenuto posizioni troppo ferme svalutando, di fatto, la professione dello sceneggiatore.
Che cosa cambia, nell'immediato?
Fatte le dovute premesse, che cosa cambierà nell’immediato per gli spettatori, americani e non? Il New York Times ha spiegato che i famosi late show, fra cui Saturday Night Live, The Tonight Show Starring Jimmy Fallon, The Late Show With Stephen Colbert e Jimmy Kimmel Live! potrebbero non andare in onda. Nel 2007, I conduttori di questi programmi restarono fuori dai palinsesti per due mesi. Quanto alle soap opera, un genere di suo già in via d’estinzione, possono spingere con la programmazione per un altro mese ma poi, pure loro, si vedrebbero costrette a chiudere i battenti.
Molto, evidentemente, dipenderà dalla durata dello sciopero. Più si allungherà e più gli spettatori, anche da questa parte dell’Atlantico, noteranno un calo di nuove serie TV. Tradotto: su Netflix e compagnia vedremo più documentari e prodotti non americani.
Quanto ai film, lo sciopero dovrà davvero protrarsi a lungo perché la catena ne risenta. Gli studios cinematografici, infatti, lavorano con circa un anno di anticipo. Tradotto bis: la maggior parte dei film in uscita nel 2023 è già stata girata.
Quanto costa uno sciopero?
Quanto potrà durare questo sciopero, beh, dipenderà da quanto sono uniti e compatti gli sceneggiatori. Storicamente, lo sono sempre stati. Gli sceneggiatori, in particolare, si sono spesso sentiti passeggeri di seconda classe sull’ammiraglia hollywoodiana. A maggior ragione se il termine di paragone sono attori e registi. Lo sciopero, a metà aprile, era stato deciso da oltre 9 mila sceneggiatori (il 98% di chi aveva partecipato a quella votazione). Chi pensa che, dunque, questa categoria potrebbe cedere si sbaglia o, nella migliore delle ipotesi, non conosce la storia. Lo sciopero del 2007 durò 100 giorni, quello più lungo – nel 1988 – si protrasse addirittura per 153 giorni.
Fermare le produzioni, va da sé, rappresenta un danno d’immagine ed economico importante. Un danno che ne provoca, a cascata, altri. In settori strettamente legati al cinema e alla televisione. Che ne sarà di autisti, servizi di catering, costumisti e chi più ne ha più ne metta? L’ultima serrata, nel 2007, provocò una perdita stimata in 2,1 miliardi di dollari.
«Non è il momento»
Gli autori, durante le negoziazioni, hanno introdotto questioni fondamentali come la limitazione dell’intelligenza artificiale a livello di scrittura (sì, ChatGPT è entrata di prepotenza anche a Hollywood). Soprattutto, però, hanno chiesto retribuzioni migliori.
Il mondo dello streaming, fra le altre cose, ha rivoluzionato le condizioni di lavoro. Molte serie, infatti, si limitano a 8-12 episodi per stagione rispetto ai tradizionali 20 e oltre delle emittenti classiche. Ergo, ci sono meno puntate da scrivere. Gli sceneggiatori, a tal proposito, hanno lottato per una migliore retribuzione residua, un tipo di royalty per repliche e simili che permetteva a molti di sopravvivere e che è stata erosa proprio dallo streaming.
Gli studios, a precise richieste, hanno risposto picche. Dicendo, in particolare, che non è ancora arrivato il momento per rivedere lo schema attraverso cui vengono pagati gli sceneggiatori.
Il settore, di per sé, non se la passa benissimo. Né in termini pubblicitari né a livello di pubblico, in particolare per le emittenti classiche e quelle via cavo. Wall Street, di suo, ha reagito male alle vicende di Netflix e alla perdita di abbonati dello scorso anno, la prima dopo un decennio florido.
Le ricadute, ancora oggi, sono significative. Disney ha avviato un piano per licenziare 7 mila lavoratori. Lo stesso ha fatto e sta facendo Warner Bros. Discovery, che ha pure accantonato film già pronti a causa dei debiti.