Max Pezzali riparte dagli anni Novanta
In un suo celebre film Massimo Troisi ricominciava da tre. Un altro Massimo, Pezzali, detto Max, dopo la pandemia ha invece deciso di ripartire da Novanta. Ovvero da quel decennio nel quale, poco più che ventenne, si affacciò con un addirittura insperato successo al mondo della canzone con i suoi 883 e che ha deciso di celebrare con una duplice operazione: un libro dal titolo Max 90. La mia storia. I miti e le emozioni di un decennio fighissimo (ed. Sperling & Kupfer) e un tour che sabato 24 luglio farà tappa a «Castle On Air» a Bellinzona.
Normalmente le ondate revivalistiche nascono quando una generazione, sentendo che sta invecchiando, cerca di rivivere – attraverso la musica ma non solo – la spensieratezza della gioventù. Anche questa operazione è legata ad un simile percorso?
«In parte sì. Perché è vero che più passa il tempo più si manifesta l’inconscio desiderio di tornare ragazzi o, quanto meno, di recuperare sensazioni di quel periodo. Però a spingermi a scrivere il libro – perché è da lì che è partito il tutto – c’erano anche altre motivazioni».
Ripartiamo allora dall’inizio...
«Tutto è nato all’interno del primo lockdown, quando come tutti mi sono ritrovato con un sacco di tempo libero e poche cose da fare. E così ho iniziato a scartabellare tra le mie cose, ritrovandone tante che mi hanno riportato appunto agli anni Novanta che a quel punto hanno iniziato ad apparirmi in modo diverso, suggerendomi una serie di riflessioni che ho iniziato a fissare su carta, in una maniera diversa dal solito, ossia non nella forma canzone, ma in quella che, lo ammetto, non mi è molto congeniale del racconto. Così e nato il libro che poi, vista la positiva accoglienza, ho deciso di portare anche sul palco con questo tour legato musicalmente appunto a quel decennio».
Perché, oltre che per il fatto che sono quelli in cui ha iniziato la scalata al successo, definisce gli anni Novanta “fighissimi”?
«Perché pur nella loro stranezza lo sono stati. Pur non avendo portato grandi rivoluzioni come i due decenni precedenti sono stati quelli in cui molte situazioni raggiungevano il culmine, circondate da un alone di ottimismo generato dalla consapevolezza che qualcosa stava per cambiare. Stavano arrivando internet e i telefoni cellulari; in Italia Mani Pulite dava la speranza che nella politica iniziasse a spirare un vento nuovo. E anche se in quegli anni non sono mancate situazioni drammatiche come la guerra nell’ex Jugoslavia c’era – specie tra i giovani – una visione positiva del futuro. Anche nella musica è stato un decennio interessante nel quale, pur non emergendo alcunché di nuovo, molti generi esistenti - dal rock alla dance all’elettronica - si sono affinati, evoluti toccando un livello di sonorità, arrangiamenti molto alto, mai raggiunto in precedenza».
E in quel momento sono arrivati gli 883...
«Quasi per caso – ride – perché quando io e Mauro (Repetto, l’altro componente iniziale del gruppo – n.d.r.) abbiamo iniziato, non pensavamo di formare un gruppo: volevamo solo scrivere canzoni da affidare a qualcun altro in modo da circoscrivere il nostro lavoro ad un ambito unicamente creativo. Tant’è che il primo album degli 883 è stato costruito sostanzialmente sui provini da noi realizzati per far sentire le nostre composizioni a dei potenziali cantanti. Però nessuno le ha volute e così, inizialmente anche un po’ controvoglia, abbiamo deciso di proporli noi».
In effetti è comprensibile che inizialmente ci sia stata un po’ di ritrosia nei confronti delle vostre canzoni, visto che parlavano di una provincia padana anche un po’ sfigata...
«Ma d’altronde è da lì che veniamo. Lo ripeto, i primi anni Novanta non erano quelli dei grandi ideali giovanili, del Sessantotto o del ‘77, soprattutto in provincia. Inoltre io non sono capace di scrivere che di cose e situazioni a me vicine, appartenenti al mio vissuto. E dunque, soprattutto nella fase iniziale, nelle canzoni c’era la mia realtà che non era fatta di mirabolanti avventure o luoghi esotici bensì di piccole cose, del ritrovarsi al bar con gli amici, di una serata all’autogrill, della ragazza che ti piace ma che non ti fila...».
Situazioni in cui molti si sono immediatamente ritrovati...
«La provincia italiana è grande: anzi l’Italia è essenzialmente provincia, sono le grandi realtà urbane delle eccezioni. E durante gli anni Novanta la provincia, a nord come al sud, si somigliava. Certo con delle differenze, ma le problematiche e le tematiche giovanili erano le stesse».
E adesso, come sono cambiate, dal suo punto d’osservazione, le cose?
«Molto e non sempre in meglio. Soprattutto perché l’eccessiva disponibilità e facilità nell’avere molte cose ha ridotto la soglia di attenzione, ha reso tutti più pigri, meno curiosi. Ecco bisognerebbe sfruttare meglio ciò che abbiamo a disposizione – che è tantissimo – e utilizzarlo con quello spirito propositivo che animava i ragazzi di un tempo».
Spirito che – ci ha detto - cercherà di rievocare, partendo dai racconti del suo libro, nel tour che arriverà anche a Bellinzona. Come?
«Attingendo alle mie canzoni di quel periodo, che in alcuni casi sono nel cassetto ormai da tantissimo tempo. E che cercherò di riproporre accompagnandole da frasi, pensieri tratti dal libro legati a situazioni di cui si fa riferimento in tanti brani e che oggi non ci sono più: il telefono a gettoni, le carte stradali, il bar come luogo di aggregazione, ma anche le vecchie lire e quel “deca” (le diecimila lire) che per i ragazzi dell’epoca era la cifra a disposizione per il finesettimana. Il tutto in una cornice scenica che riporta alle esibizioni di quel periodo. Come quella – tra le prime che facemmo come 883 – alla discoteca Alcatraz di Riazzino che ci colpì in quanto all’avanguardia rispetto a quelle in cui ci esibivamo in Italia».
Un ricordo che denota un solido legame con il Ticino...
«Certamente. Tanto che, l’ultima mia uscita serale prima del primo lockdown la feci proprio a Lugano. Si andò al Cinema e poi in una birreria dove scoprii un nuovo tipo della mia birra preferita. Visto che però dovevo guidare rinunciai a provarla rimandando il tutto ad una successiva occasione in cui non sarei stato al volante. Beh, due giorni dopo hanno chiuso le frontiere per la pandemia. Il risultato è che quel tipo di birra non sono ancora riuscito ad assaggiarlo e non vedo l’ora di tornare a Lugano per farlo...».