Max Picard, l’integrità contro la barbarie
Siamo capaci di memoria? Può sembrare paradossale porre questa domanda proprio il Giorno della memoria. Eppure è probabilmente quella che più di altre merita di essere posta nel 75. anniversario della liberazione di Auschwitz, campo dello sterminio pianificato per antonomasia. E se la risposta fosse no? E se i propositi volontaristici stabiliti dall’uomo dei diritti dell’uomo non riuscissero purtuttavia ad evacuare il fantasma di questa ipotesi? E se perfino l’ascolto dei testimoni dell’orrore suscitasse soltanto un’emozione effimera? Forse, per scuotere la coscienza e far scattare la responsabilità serve di più soffermarsi sul limitare di questo dubbio sospendendo il giudizio piuttosto che indulgere al rito espiatorio collettivo che rischia di essere tutto sommato autoassolutorio: «Noi stiamo dalla parte giusta». La domanda è inaggirabile se si vogliono creare le premesse affinché resti viva la speranza che le ferite profonde del secolo dei totalitarismi possano rimarginarsi e che il «Mai più» non risuoni tristemente velleitario in questo barbaro inizio del Terzo millennio.
Senso di sperdutezza
Nel suo diario di partigiano, dopo l’occupazione tedesca della Francia, il poeta René Char annotò il seguente aforisma, citato da Hannah Arendt: «La nostra eredità non è preceduta da nessun testamento». Come dire che per una generazione travolta dall’irruzione di un male percepito come assoluto, «il passato (Arendt lo sottolinea), non sarebbe più stato in grado di illuminare il futuro». Era la constatazione di una sperdutezza, lo spavento di non disporre più, di fronte allo scatenarsi di una volontà di potenza devastante, di un passato su cui poggiare la resistenza non solo materiale ma spirituale. Sulla distruzione della memoria da parte della civiltà moderna, la filosofa Simone Weil ha parole inequivocabili. «Gli uomini di razza bianca hanno distrutto ovunque il passato, ciecamente, nelle loro patrie e in quelle altrui. Se ciò nonostante c’è stato per certi versi un reale progresso, ciò non è per merito di questa furia distruttiva ma suo malgrado, per impulso di quel poco di passato che restava» (L’enracinement, 1949). Il male del secolo è lo sradicamento – affermava -, prodotto dallo scientismo imperante che ha sostituito l’umanesimo e la scienza greca che ponevano al centro l’uomo e non il modello matematico, la macchina e l’apparato. Per Weil, il problema è la volontà di potenza e il fatto che la forza è il principio dominante della modernità (e della post-modernità). «Da due o tre secoli crediamo contemporaneamente che la forza sia l’unica signora di tutto e che gli uomini debbano fondare le loro reciproche relazioni sulla giustizia. Le due cose sono contraddittorie e incompatibili». Non è un caso - sottolinea la filosofa ebrea citando Hitler - che proprio sul primato della forza si fonda il Mein Kampf. Anticipando le riflessioni critiche di Simone Weil, nel 1946 un filosofo svizzero di origini ebraiche convertito al cristianesimo, Max Picard, aveva pubblicato un libro che suscitò grande clamore: Hitler in noi stessi. L’opera di Picard - corrispondente di Rilke, Gabriel Marcel e altri grandi intellettuali dell’epoca, stabilitosi a Neggio - suscitò l’apprezzamento di Benedetto Croce, che nei Quaderni della Critica così scrive: «L’opera di Picard è un’acuta analisi del mondo contemporaneo e di quel che vi si avverte di morboso: la rottura della continuità storica e della continuità o unità dell’anima e il vuoto che con ciò si apre e la follia che consegue dal voler riempire il vuoto col vuoto, accumulando orrori e delitti che, nella vacuità che vieppiù si allarga perdono persino il carattere di orrore e si fanno cose indifferenti». Croce identificava questa rottura della continuità storica e dell’unità dell’animo umano nel nichilismo. «Come è possibile - si chiedeva Picard analizzando il comportamento dei gerarchi nazisti - suonare Mozart prima e dopo aver sterminato uomini nelle camere a gas? Avere Hölderlin nello zaino e Goethe negli scaffali delle loro biblioteche nei campi di sterminio?» Per Picard ciò è possibile perché «i nazisti sono i prototipi umani del Nulla, che esistono solo nell’istante, senza rapporto con ciò che precede e ciò che segue e perciò incapaci di responsabilità e neppure di pentimento... Gli abomini sono compiuti come degli apparati, in una serie di istanti disgiunti fra loro: la macchina ora è programmata sul crimine e un istante dopo su una passeggiata o sulla carezza sul capo del proprio figlio».
Forza disgregante
Il nazismo ha potuto conquistare le masse in un mondo della discontinuità sistematica e la disgregazione dell’unità della persona. In cui l’anziano non è «testimone del corso fecondo del tempo ma scarto inutile», dove l’ebreo «non è neppure un nemico vivo, ma una cifra morta, ridotto a un manichino con indosso, al posto dei vestiti, dei numeri indice». Dove «alla verità (che riguarda l’essenza della durata) si è sostituita una mera “costatazione momentanea” tecnico-meccanica». Un quadro allarmante, quello di Max Picard, che urta e provoca la nostra coscienza di post-moderni. Ma il filosofo di Neggio confidava tuttavia in ciò che resta al fondo del Vaso di Pandora: In questo mondo della discontinuità strutturale, «in questa umanità disgregata, ci sono singoli uomini così integri... che irradiano attorno ad essi ... e salvano verità e bellezza».
Oggi diremmo dei giusti.
E poi - concludeva Picard -, benché «il Nulla di Hitler fosse conforme alla struttura dell’epoca e alla sua dissoluzione e disgiunzione, egli non ebbe la vittoria. È il segno che gli uomini e la terra non appartengono soltanto a se stessi, ma a Uno che li ama e sempre offre a ciascuno una nuova possibilità di salvezza».