L'intervista

«Il lunghissimo cordone rosso che unisce musica e letteratura»

Con Giulio Carlo Pantalei, scrittore e musicista con un dottorato in italianistica conseguito a Roma Tre e a Cambridge, indaghiamo il rapporto tra la canzone e la cultura in ogni sua forma
Come altri grandi scrittori del secondo Novecento, anche Pier Paolo Pasolini è stato autore di canzoni. © KEYSTONE/PHOTOPRESS-ARCHIV/BCA/Str
Dario Campione
14.02.2025 06:00

Scrittore e musicista con un dottorato in Italianistica conseguito a Roma Tre e a Cambridge, Giulio Carlo Pantalei indaga il rapporto tra la canzone e la cultura in ogni sua forma. Nel suo ultimo libro, Pantalei illustra il legame fortissimo che unisce la grande letteratura italiana del secondo ’900 alla musica pop e folk.

Nei giorni in cui gli italofoni sono incollati alla Tv per seguire Sanremo, leggendo il suo libro si scopre come, per tanti anni, la musica pop e la cultura chiamiamola “alta” siano state unite. Molto più di quanto si potesse immaginare. 
«Ho sempre cercato, nel mio percorso di studioso di italianistica e di musicista, di fondere queste due anime, ed è stato particolarmente sorprendente, lo confesso, accorgermi a un certo punto che i principali scrittori del ’900 italiano, sui quali stavo compiendo le mie ricerche, avessero scritto canzoni. Testi quasi sempre messi un po’ al margine dei vari corpora, come fossero operine di genere scritte con la mano sinistra; e che, invece, dialogavano con l’opera maggiore in maniera sicuramente più profonda di quanto si pensasse. Ho tentato di metterle a sistema e di capire il contesto in cui questi versi per musica erano effettivamente nati e, in tal senso, ho ricostruito anche il dibattito legato al sorgere di questi primi tentativi di canzone d’autore. Una questione abbastanza capitale nel secondo ’900 italiano, perché interessava pure l’aspetto politico, dell’engagement, della militanza degli autori: ideologica, oltre che civile e culturale. Per costoro, Sanremo e il nazionalpopolare erano in qualche modo il bersaglio, con cui tuttavia dovevano fare i conti. Giudicavano quella del festival come la “canzonetta gastronomica”, fatta solo per essere consumata rapidamente. E si chiedevano: perché non innalzarne i contenuti e ricollegarli di più alla letteratura, alla poesia, al legame secolare tra letteratura e musica? Forse oggi siamo tornati un po’ a quella canzonetta gastronomica, come ha detto l’altro giorno la Crusca. Effettivamente, dal punto di vista testuale e dei contenuti siamo tornati alla canzonetta gastronomica».

La musica, anche la canzone più pop, era considerata da questi grandi scrittori un veicolo chiave della comunicazione, non se ne sottovalutava l’importanza all’interno del sistema culturale.
«Assolutamente sì. Avevano capito che la musica avrebbe avuto un’importanza sempre crescente nel modo in cui le persone avrebbero plasmato la propria visione del mondo e della vita. E l’avevano capito davvero prima del tempo. C’era aria di rivoluzione, nel dopoguerra, e gli scrittori l’avevano intuito. Pensiamo all’esplosione che avrebbero avuto, negli anni ’60, il rock o il folk, con episodi luminosi come quelli di Bob Dylan destinato addirittura, dopo tanti anni, a vincere il Premio Nobel per la Letteratura. In questo senso, i grandi autori del secondo ’900 italiano avevano compreso che sul terreno della canzone pop o, comunque, della forma canzone, si sarebbe presto combattuta una battaglia importante, sia dal punto di vista culturale e artistico sia dal punto di vista socio-politico. In qualche modo, hanno voluto innalzarne i contenuti anche per sottrarre la forma canzone all’idea del mero oggetto di consumo e non costringerla a far parte della macchina consumistica a tutti i costi. Un po’ quello che Sanremo veicolava, a loro dire. Rendere le canzoni in qualche modo più poetiche e più impegnate è stato ciò che ha fatto nascere il cantautorato italiano. I giovani Fabrizio De André, Francesco Guccini, Luigi Tenco, Giorgio Gaber e molti altri hanno ammesso di dovere tantissimo all’insegnamento di quei letterati e ai tentativi di scrittura di una canzone, appunto, diversa compiuti da Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Alberto Arbasino, Franco Fortini, Alberto Moravia, Roberto Roversi. È qualcosa che solitamente non fa parte delle biografie di questi grandi scrittori, sono episodi sempre considerati marginali. Che invece hanno il loro peso».

Leggendo il suo libro mi pare di capire, però, che questi autori non volessero andare contro Sanremo quanto piuttosto legittimare una canzone che fosse differente. Dire cioè che la musica pop si può fare in tanti modi, non soltanto quello leggero o di puro intrattenimento, ma anche più solido nei contenuti.
«Esattamente. In questo senso, il capitolo su Giorgio Caproni è abbastanza esplicativo. Già alla metà degli anni ’50, e quindi nel periodo della prima messa in onda di Sanremo televisiva, Caproni fu chiamato nella giuria che giudicava la parte letteraria dei testi. Non mancarono una serie di critiche, anche per le sue scelte di giurato, ma l’indicazione di Caproni e il dibattito sui testi e sui contenuti delle canzoni di Sanremo fa capire come la stessa organizzazione del festival si fosse posta il problema del rapporto tra il Paese e il messaggio veicolato dalla manifestazione. Sanremo, a fasi alterne, si è dimostrato talvolta più aperto ad accogliere influssi anche alternativi rispetto al pop dominante e da classifica, altre volte invece più chiuso. Oggi, a mio avviso, siamo tornati a un certo tipo di chiusura: da un lato, c’è uno standard del pop; da un altro lato, ci sono influssi diversi che tengono conto delle pulsioni più sotterranee e più avanguardistiche, e che non trovano al momento grande spazio. È un po’ quello che dicevano i letterati all’epoca, il motivo per cui Calvino, Fortini, Pasolini, Arbasino si erano messi di proprio pugno a cercare di scrivere una canzone alternativa».

 A proposito di Pasolini, nel suo lavoro c’era una commistione non soltanto tra musica e letteratura, ma anche tra musica e cinema. La canzone di cui lei parla nel libro, Cosa sono le nuvole, cantata da Domenico Modugno, è eseguita nell’episodio omonimo di Capriccio all’italiana che il regista firmò nel 1968.
«Vero. Pasolini aveva una concezione dell’opera d’arte totale, come si diceva nell’Ottocento. Inizia a scrivere canzoni in dialetto friulano giovanissimo, e la musica non lo abbandonerà mai. Quando arriva a Roma, tenta di ricostruire, attraverso i ritmi musicali, il romanesco, dialetto che ovviamente era nuovo per lui e che sarà poi alla base anche dei primi romanzi, Ragazzi di vita e Una vita violenta. Per Pasolini, la musica è proprio consustanziale all’opera poetica. Aveva avuto una formazione musicale molto colta, suonava il violino e aveva studiato il pianoforte ancora ai tempi di Bologna. Una passione che avrebbe coltivato nel periodo di Casarsa e che si portò dietro, appunto, nel cinema. Lo studio sulle colonne sonore dei suoi film era ogni volta accuratissimo, e dimostra anche come Pasolini spaziasse a livello di ascolti. Era veramente un onnivoro conoscitore di differenti generi musicali». 

Dei grandi autori citati nessuno è tuttavia diventato un vero e proprio paroliere, tranne forse Roberto Roversi con Lucio Dalla. Si sono tutti cimentati con la canzone ma in maniera, se non sporadica, molto puntuale. Secondo lei, perché?
«Roversi è il punto d’arrivo di questo percorso, e non a caso a lui dedico il capitolo conclusivo del libro. Nell’immediato dopoguerra, anche nel territorio della canzone e della musica, si aprì un dibattito - una dialettica, usando il termine caro a Pasolini - che intersecava anche il grande tema della riscoperta del folclore e degli studi antropologici. Sono gli anni in cui nasce l’etnomusicologia. Questi letterati, questi scrittori, i quali intervenivano con un altro peso nelle grandi questioni, si concedevano - per esempio nel caso di Calvino, di Fortini, ma anche di Arbasino - occasioni musicali. Lo fanno, ad esempio, per uno spettacolo messo in piedi da Laura Betti, mischiando i linguaggi della letteratura e della musica. Sono iniziative talvolta sporadiche, ma capaci di influenzare altri giovanissimi autori: Franco Battiato, Renato Zero, Tenco o De André, i quali capiscono che si può fare musica di taglio diverso. Il caso più eclatante è De André che, nella Guerra di Piero, fa un gioco intertestuale molto raffinato con una canzone scritta da Calvino, Dove vola l’avvoltoio. Francesco De Gregori farà la stessa cosa con un’altra canzone di Calvino, Oltre Il ponte».

È la sua tesi: il cantautorato italiano figlio della grande letteratura del secondo ’900.
«Sì, c’è una linea, un filo rosso che, con il mio studio, spero umilmente di contribuire a far diventare sempre più rosso e che lega il cantautorato italiano storico alla grande letteratura italiana del ’900».

Per chiudere e tornare a Sanremo: nonostante la scarsa vena letteraria, resta una manifestazione capace di incidere molto nel linguaggio.
«Sono d’accordo. Accade perché, come diceva Gianni Borgna, Sanremo ha un grandissimo peso nei sentimenti e nel cuore delle persone e riesce spesso, grazie alla musica, ad arrivare in quelle pieghe che poi diventano parte di un immaginario collettivo. Inoltre, anche se non si guarda, Sanremo invade comunque tutta la sfera della comunicazione. È sempre stato così, lo diceva già Ennio Flaiano negli anni ’60. Ciò detto, secondo me negli ultimi anni, sia la componente musicale sia la componente testuale delle canzoni festivaliere sono molto più fiacche, più adagiate sui gusti e sui trend. Da un punto di vista del messaggio o della caratura, spesso hanno poco da dire. Le statistiche pubblicate da Spotify parlano di tonnellate di brani che, in uscita ogni giorno, ingolfano il sistema. Anche nel panorama musicale c’è qualcosa che va di moda, che riesce ad affermarsi attraverso i social media; così, si rincorre soprattutto quello che piace, magari riproponendolo con mille altri progetti derivativi. In questo senso, è davvero molto difficile trovare qualcuno che ancora abbia una vena espressiva originale, innovativa, caratterizzata dall’urgenza di comunicare qualcosa attraverso il testo di una canzone».

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