La storia

Kitsch, ma non solo: il legame fra Eurovision e la politica

L'edizione 2024, caratterizzata dalle proteste pro-Gaza e dalla richiesta di escludere Israele, non è un caso isolato: vediamo perché
© JESSICA GOW
Marcello Pelizzari
11.05.2024 13:00

Le proteste pro-Gaza, con le richieste (esplicite) di escludere Israele dalla competizione per quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza. Ma anche il caso Joost Klein. Sì, l'edizione 2024 di Eurovision – con la finalissima in programma stasera – non ha tradito le attese. Confermando che il palco, quel palco, non è soltanto sede di luci, acuti, balletti e kitsch in quantità industriali. No, la creatura dell'Unione europea di radiodiffusione (UER) è anche una piattaforma geopolitica nonché il teatro di casi e faide. Proviamo a riassumere, allora, le questioni più eclatanti delle ultime edizioni.

L'amore fra Siria e Israele? Impossibile

Israele, nel 2000, fu protagonista di un caso di autocensura. L'Israeli Broadcasting Authority, l'ente preposto a selezionare artista e brano per Eurovision, non accettò la canzone Same'ach della band Ping-Pong. Il motivo del rifiuto? È presto detto: il gruppo, durante i provini, sventolò delle bandiere siriane. Il testo, d'altro canto, parlava della relazione fra una donna israeliana di un kibbutz e un uomo di Damasco. 

Analogamente, secondo i critici l'ampio pubblico e la dimensione internazionale dell'evento hanno spinto Paesi come Israele a sfruttare la kermesse per ripulire la propria immagine. Mandando sul palco gli esponenti più progressisti della società, come artisti della comunità LGBT.

Un aspetto, quest'ultimo, ancora più importante per i governi autoritari. Organizzare l'Eurovision, per certi versi, è come ospitare una finale di Champions League. Prestigio, soft power e via discorrendo. Ne sa qualcosa l’Azerbaigian, che nel 2012 spese 160 milioni di euro per mostrarsi all’Europa e al mondo nel migliore dei modi. L’esercizio si rivelò un mezzo autogol, giacché con i riflettori puntati addosso Baku non seppe nascondere le derive autocratiche del regime. Le organizzazioni per i diritti umani, dal canto loro, criticarono aspramente l’UER per il suo scarso attivismo nel denunciare i soprusi azeri.

L'edizione 2016

L’Ucraina, fra le finaliste quest'anno, aveva conquistato la competizione per l’ultima volta nel 2022 a Torino e, prima ancora, a Stoccolma nel 2016. All’epoca, il brano 1944 aveva fatto storcere il naso – indovinate un po’? – alla Russia. Jamala, autrice e interprete, dedicò quei versi alla sua bisnonna. Vittima di deportazione, ai tempi di Stalin, assieme a 240 mila altri tatari della Crimea. Un messaggio politico, a detta di Mosca, tenendo ben presente quanto successo nel 2014 con l’annessione. Di qui la richiesta di escludere la cantante ucraina. Kiev, a quel giro, se la cavò senza problemi. No, la canzone non era politicizzata e, dunque, non violava il regolamento.

Tre anni più tardi, nel 2019, l'Ucraina si ritirò addirittura dal concorso dopo che l'artista selezionata, Maruv, si rifiutò di firmare un accordo che le imponeva di non effettuare tournée in Russia in cambio, appunto, della sua nomination. Kiev non riuscì a proporre alcun sostituto, anche perché altri due potenziali candidati rifiutarono il medesimo accordo. Costringendo, dunque, il Paese a non partecipare.

Prima, invece, nel 2007, la canzone Dancing Lasha Tumbai di Verka Serduchka suscitò non poche polemiche poiché nel ritornello quel «Lasha Tumbai» assomigliava tanto, troppo a un «Russia Goodbye». 

«Io non voglio Putin»

Nel 2009, le tensioni fra Georgia e Russia erano a livelli altissimi. L’UER, onde evitare il caos, corse ai ripari ritoccando il pezzo georgiano, We Don’t Wanna Put In, sorta di calembour che chiamava in causa nientepopodimeno che il leader del Cremlino. Anche l’Armenia fu pregata di modificare il titolo del suo brano del 2015, Don’t Deny, un chiaro riferimento al rifiuto, da parte della Turchia, di riconoscere il genocidio armeno del 1915.

Le bandiere

Ma ritorniamo al 2016. Edizione che, a ben vedere, fu caratterizzata da un’altra diatriba. Quella delle bandiere, già. Che cosa successe? Beh, stando all’elenco dell’organizzazione i vessilli regionali erano vietati. Attenzione, perché in quell’elenco figurava pure la bandiera dell’ISIS. I Paesi Baschi nel girone dei cattivi assieme allo Stato Islamico? Ahia.

Dopo il classico giro di scuse, l’UER ribadì che solo e soltanto le bandiere dei Paesi partecipanti alla competizione e dell’Unione Europea sarebbero state concesse, unitamente alla bandiera arcobaleno simbolo della comunità LGBT. Una regola, questa, ribadita anche nel 2024 di fronte all'eventualità che sul palco o fra il pubblico comparissero bandiere palestinesi.

Dicevamo del 2016, comunque. Regole rispettate? Ma figuriamoci. L’armena Iveta Moukoutchian sventolò il simbolo della regione separatista del Nagorno Karabakh. Scatenando l’ira dell’Azerbaigian, che a quel punto pretese sanzioni nei confronti dell’avversaria. La faccenda, per contro, si risolse con un semplice avvertimento.

Armenia e Azerbaigian, a ogni modo, da anni si fanno la guerra nelle votazioni. Baku classifica sistematicamente Yerevan all’ultimo posto, mentre Yerevan raramente concede dei punti a Baku.

Anche il pubblico, negli anni, ha recitato la sua parte. Detto del 2016, nelle due precedenti edizioni gli artisti russi vennero fischiati dagli spettatori. Il motivo? Le cosiddette leggi anti-gay adottate da Mosca.

Mosca, leggiamo, reagì male, anzi malissimo al successo ucraino del 2016. Non tanto, o non solo, per il presunto affronto politico di 1944 ma perché, secondo i pronostici, avrebbe dovuto vincere il brano russo. Un senatore arrivò perfino ad affermare che «la politica ha battuto l’arte», suggerendo di boicottare l’edizione successiva in Ucraina.

Alla fine, la Russia optò comunque per presentarsi a Kiev ma a Yulia Samoilova fu negato l’ingresso nel Paese, avendo tenuto un concerto in Crimea – regione annessa illegalmente dalla Russia nel 2014 – senza il permesso delle autorità ucraine. L’UER intervenne a mo’ di mediatore, ma non ci fu niente da fare. Mosca, quindi, si ritirò dal concorso non senza accusare l’Ucraina di discriminazione, dal momento che Samoilova – complice l’atrofia muscolare spinale – è costretta alla sedia a rotelle.

A proposito di Russia: gli effetti dell'invasione su larga scala

L'invasione su larga scala dell'Ucraina da parte della Russia, oramai oltre due anni fa, ovviamente ha avuto ripercussioni anche a livello di Eurovision. Mosca, nell'immediato, era stata esclusa dalla competizione. Una sospensione ancora in vigore, va da sé. Lo stesso dicasi per la Bielorussia, fermata già nel luglio 2021 e per tre anni a causa del tenore politico delle canzoni proposte e, ancora, della situazione nel Paese guidato da Lukashenko. Kiev, per contro, nel 2022 aveva firmato un’autorizzazione speciale per permettere al gruppo Kalush Orchestra (composto da soli uomini, tutti arruolabili nell’esercito) di partecipare. Chi vinse? Proprio loro.

Gli sms di Macron

Incredibilmente, ma nemmeno troppo, Eurovision negli anni ha coinvolto in prima persona pure politici di alto, altissimo profilo. Prendete la Francia: dopo anni e anni di delusioni e piazzamenti imbarazzanti, ha cominciato a preparare la competizione come fosse un’Olimpiade. Mobilitando, in ottica voto, perfino i francesi che vivono all’estero.

Nel 2021, a Rotterdam, i transalpini si piazzarono al secondo posto alle spalle degli inarrivabili Maneskin. Un risultato di prestigio, proprio pensando al deserto attraversato in precedenza. A sostenere la causa francese, tre anni fa, nei Paesi Bassi fu mandato pure il Segretario di Stato per gli affari europei, Clément Beaune. Davanti alla tv, a Parigi, c’era invece il presidente Emmanuel Macron. Il quale, parola di Le Monde, quando l’Italia stava vincendo inviò diversi SMS a Stéphane Bern, co-conduttore per la tv francese, chiedendogli di «fare qualcosa».

I grandi Paesi, che tendevano a snobbare l’evento, ora ne sono i primi sostenitori. Oltre alla Francia, citiamo l’Italia e il Regno Unito. Un investimento che, per quanto assurdo, è altresì culturale e diplomatico.

In che senso la politica e i politici «entrano» nella competizione?

Altro passo indietro. Negli anni Settanta Grecia e Turchia diedero vita alla stagione dei boicottaggi. Gli ellenici si ritirarono nel 1975 in segno di protesta contro il debutto turco a meno di un anno dall'invasione di Cipro. La Turchia, a sua volta, si rifiutò di partecipare nel 1976 poiché la Grecia intendeva fare riferimenti espliciti al conflitto. 

Sempre negli anni Settanta, nel 1974 per la precisione, alcune settimane dopo avere partecipato a Eurovision la canzone portoghese E Depois Do Adeus di Paulo de Carvalho fu usata come segnale segreto per allertare i capitani e i soldati ribelli. Della serie: sì, è il momento giusto per lanciare il colpo di Stato, passato alla storia come Rivoluzione dei Garofani.

Nel 1968, invece, Cliff Richard arrivò secondo alle spalle della Spagna, che vinse grazie a La La La di Massiel. Un risultato, quello, truccato. Di per sé niente di trascendentale, dirà qualcuno, se non fosse che le voci di brogli portavano dritte dritte al generale Franco. Nel 2008, al riguardo, emersero ulteriori prove grazie a un documentario spagnolo. Richard, dal canto suo, si lamentò del fatto che nessuno, nemmeno dopo quel documentario, lo chiamò per dirgli: «Cliff, alla fine hai vinto tu quella dannata cosa».

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