Il fenomeno

Mezzo secolo di Hip Hop

Il genere - che non è solo musica - nasce l’11 agosto del 1973: pochi pensavano che sarebbe diventato qualcosa in più di una moda estiva destinata a rimanere nel ghetto
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Stefano Olivari
06.08.2023 13:45

L’Hip Hop compie 50 anni e alla nascita, l’11 agosto del 1973, pochi pensavano che sarebbe diventato qualcosa in più di una moda estiva destinata a rimanere nel ghetto in cui era nata. Invece stando alle statistiche l’hip hop è nel 2023 il genere musicale più ascoltato negli Stati Uniti, con il 28% dello streaming, mentre nel resto del mondo è sesto con l’11,9% dietro a pop (31,1%) e rock (24,1%). Poi l’Hip Hop non è soltanto musica, ma identificarlo con i rapper ed in generale con la cultura afroamericana è naturale anche per chi vuole fare il fenomeno e con fare pensoso ti spiega che «C’è molto altro».

DJ Kool Herc

Tutto parte dalla terrificante New York anni Settanta, città da cui molti scappavano per la criminalità ma anche piena di stimoli musicali di ogni tipo: un clima ben raccontato dalla serie televisiva Vynil, fra eroina e band interessanti che emergevano a ciclo continuo partendo dai locali giusti ma anche da movimenti dal basso come i block party del Bronx. Nella sostanza i block party erano feste organizzate da giovani afroamericani, latini e caraibici lì residenti, con DJ centrati soprattutto sul funk e sul soul. Il più famoso di questi pionieri, DJ Kool Herc, all’anagrafe Clive Campbell, diciottenne giamaicano fanatico di James Brown (ancora oggi dice che il rap deriva dall’icona di Sex Machine e non da lui), che quell’11 agosto 1973 ad una festa della sorella mise in pratica una tecnica che stava sperimentando da tempo: visto che le pause percussive dei dischi funk, soul e disco erano brevi, Herc usò due giradischi per prolungarle. Poi le isolò le pause con un mixer ed ecco che l’Hip Hop era nato. Così, al 1520 di Sedgwick Avenue, in un Bronx degradato che già da una decina d’anni aveva smesso di essere il quartiere della piccola borghesia bianca si iniziò a parlare di breaking e scratching.

Primo rap

Quello dei block party non era però ancora l’Hip Hop che oggi abbiamo in testa, mancava un elemento fondamentale che fu inserito pochi mesi dopo da Herc e da tutti quelli che si erano buttati sul nuovo filone: ricordiamo che nell’era pre streaming ci si arricchiva vendendo i dischi e quindi c’era sempre fame di cose nuove, non di già sentito o di revival visto che pochi ascoltavano i cantanti anche soltanto di dieci anni prima. Il secondo elemento chiave, quindi. Fu l’emceeing, cioè l'esecuzione ritmica e parlata di rime e giochi di parole, dapprima senza accompagnamento e successivamente su un beat. È qui che l’Hip Hop smise di essere interrazziale per diventare una cosa quasi totalmente nera, visto che questo stile parlato altro non era che l’afroamericano capping, in pratica un'esibizione non necessariamente musicale in cui gli uomini cercavano di superarsi l'un l'altro per originalità e provocazioni. Subito questi rapper si distinsero per uno stile che era un misto di vanterie, allusioni sessuali ed invettive politiche. Questo l’inizio mentre il resto, come si dice, è storia. 

Perché mainstrem

Veniamo quindi al punto: perché l’Hip Hop, nelle sue varie versioni, prima fra tutte il rap, considerato mainstream alla fine degli anni Settanta, è durato fino ad oggi? E perché nel mondo è dietro soltanto al pop, dove ci si può mettere di tutto, e al più definibile rock? La prima spiegazione è di tipo colonialistico: l’Hip Hop è un fenomeno prima di tutto newyorkese e poi statunitense, e qualsiasi cosa funzioni lì viene prima o poi proposta-imposta al resto del mondo. La seconda spiegazione è che gran parte dell’hip hop è ballabile, e ciò che è ballabile entra più facilmente nel mainstream. La terza spiegazione è che l’hip hop è il genere che negli ultimi decenni ha creato più icone planetarie, mescolando musica e vite private: da Jay-Z a Kanye Est, da Drake a Eminem, passando per RUN DMC, LL Cool J, Public Enemy, Ice Cube, gli N.W.A., Snoop Dogg, Tupac e Dr. Dre, Nas, eccetera. La quarta spiegazione è che i musicisti Hip Hop sono stati fra i primi a credere davvero nello streaming, conquistando subito quote di mercato importanti e difendendole grazie anche ai social network. La quinta spiegazione, la più cattiva di tutte, è che l’hip hop ha sì artiste donne (Beyoncé, Nicky Minaj, Rihanna), ma è un genere fra il maschile ed il maschilista con la particolarità di non essere criticabile dai media visto che gli artisti sono quasi tutti neri e quindi, soprattutto negli Stati Uniti, chi critica l’hip hop è schedato come criptorazzista.

 Molti critici musicali però sostengono, sottovoce o in privato, che l’Hip Hop sia in declino nonostante i numeri assoluti generati dallo streaming, con statistiche dopate dai giovani (il pubblico target dell’hip hop, che pesca molto anche fra i bianchi benestanti) che magari ascoltano 100 volte la stessa canzone: non accadeva così con le classifiche determinate dai dischi acquistati, dove uno valeva uno. Nel 2022 soltanto 10 volte un disco rap è stato in vetta alle classifiche settimanali di Billboard, contro le 15 del 2021 e del 2020, e le 17 del 2019. Inoltre da anni non vemerge dall’Hip Hop un personaggio nuovo, in grado di interessare anche fuori dagli Stati Uniti. Tutto questo in un periodo di boom per la musica latina e addirittura per il country, dato per defubto ma che sta piacendo sempre di più fuori dagli Stati Uniti. Inutile girarci intorno: l’Hip Hop è sì trasversale ma è visto da tanti come una musica di neri (con poche eccezioni) per neri, con latina e country a presidiare altri mercati. In un periodo di polarizzazione, anche senza metterci a fare il temino sull’America divisa in due, queste cose contano.