«Non rinunciamo all'utopia, rinunciamo ai suoi errori»
Abbiamo smesso di sognare in grande? «Malgrado lo strepitoso aumento dell’ingiustizia economica, il mondo non è minacciato da una rivolta degli oppressi, troppo occupati a rendere i ricchi ancora più ricchi comprando da loro deodoranti e smartphone. Il rigetto potrebbe invece venire da tutto l’ecosistema». Così scrive Luigi Zoja nell’ultima edizione del saggio Utopie minimaliste (edizioni Chiarelettere, 2021). Gli abbiamo chiesto quali sono le utopie del nostro tempo.
Luigi Zoja, lei scrive che gli errori dell’utopia non andrebbero risolti rinunciando all’utopia, ma rinunciando agli errori. A quali errori si riferisce?
«Al massimalismo. Non dobbiamo rinunciare all’utopia, ma al massimalismo, cioè – dal punto di vista dello psicanalista – al narcisismo o all’onnipotenza. Etichette cliniche che potremmo ridurre nel linguaggio comune all’idea del presuntuoso, cioè all’individuo che proietta le sue idee sul mondo e dice: “Adesso cambiamo il mondo”. Il mondo però non si lascia cambiare. E allora il programma politico – la cui natura consiste nel trovare compromessi – fallisce e diventa ideologia, una nuova religione. Abbiamo visto i massacri a cui tutto questo ha portato nel secolo scorso, i genocidi nazisti e sul fronte opposto i genocidi staliniani o di Pol Pot. Tutte persone che volevano creare l’“uomo nuovo” fermandosi al primo stadio».
Cioè?
«Cioè all’idea di ammazzare gli uomini cosiddetti “vecchi’’. Ma l’uomo “nuovo’’ non lo si vede mai. Insomma, ci si ferma al crimine».
Mi sta dicendo che un’utopia per funzionare deve fare i conti col principio freudiano di realtà, quello che ci consente di posticipare o rimpiazzare i nostri desideri in funzione delle pressioni della realtà affinché ci adattiamo a essa. Ma è conciliabile l’utopia col principio di realtà?
«Direi di sì, chiarendo però cosa si intende per utopia. Non a caso io aggiungo al termine “utopia” l’aggettivo “minimalista”. Non deve essere una persona che fa il tribuno e che urla salendo sul podio a dettare la linea (a parte il fatto che le adunate materiali hanno perso potere e oggi sono soprattutto virtuali). L’utopia minimalista è quella che molti giovani praticano restando a casa loro».
Cioè?
«Cioè i giovani che si impegnano molto anche se non lo vediamo perché i loro sforzi avvengono nel quotidiano».
Per esempio?
«Per esempio un ventenne o un trentenne crede molto di più nell’attenzione all’ambiente come gesto quotidiano, e separa l’immondizia anche se nessuno lo vede. Mi pare che tra le giovani generazioni ci sia un senso di colpa se non si compiono questi gesti elementari. Ecco un esempio di utopia minimalista».
Lei ha dedicato un ampio capitolo del suo saggio a Che Guevara, rimproverandogli l’errore di avere avuto troppa fretta nel realizzare la sua rivoluzione. Oggi anche Greta Thunberg ha fretta di cambiare le cose. La fretta della sua utopia non è data dall’impazienza personale, ma dall’urgenza imposta dai cambiamenti climatici.
«È vero. La prima edizione del libro l’ho scritta negli anni 2010-2011 e non c’era ancora questo fenomeno. L’anno scorso ho realizzato la nuova edizione accennando solo in coda a questi fatti. Ma lei ha ragione: ci vorrebbe un nuovo capitolo sulle nuove impazienze giustificate, perché certe cose ci stanno scappando di mano».
Lei osserva che «ogni creazione mentale che non si misuri con la realtà degli individui è incapace anche di autocritica. Per questa mancanza di dimensione psicologica, è condannata alla negazione, scissione da sé e proiezione (su un nemico, vero o immaginario) di quello che non ammette. Senza il confronto col nemico non esisterebbe». Non è esattamente quello che continuiamo a vedere nello scontro di civiltà con l’Islam prima e in salsa russa ora?
«Assolutamente sì. Il pericolo, per dirlo con il linguaggio junghiano, è che si creino gli archetipi del bene e del male e che qualunque confronto si inserisca in questo quadro. Ciò detto, va tenuto presente che siccome la politica è l’arte del possibile, le operazioni militari sono poi il proseguimento della politica con altri mezzi in casi di urgenza e di necessità. Temo comunque che, per il momento, la priorità sia di appoggiare gli ucraini in tutti i modi, incluso quello militare. Per non tornare ad avere una situazione di ricattabilità da parte di qualcosa di ingestibile. La paranoia è l’aspetto buio dell’archetipo, la sensazione di avere sempre un nemico e che tutto andrà in ordine soltanto quando quel nemico sarà distrutto. Una dimensione non solo clinica, ma relazionale, politica e umana in generale».
Uno degli aspetti più originali del suo saggio è il legame tra l’utopia e la psicologia. Lei scrive: «Si tratta di una aspirazione estranea tanto al massimalismo quanto al cinismo del “libero” mercato. Pensiamo che essa corrisponda ad atteggiamenti psicologici prima ancora che socio-economici». A cosa si riferisce?
«Direi anche al non cadere nella tecnologia, nel tecnologismo e nell’economicismo della vita laddove sono ancora possibili degli atteggiamenti più semplici e istintivi, come la tutela dell’ambiente. Perché non inseriamo nelle Costituzioni il diritto all’aria pulita, oltre che all’acqua, per esempio? Il modello, da questo punto di vista, non sta in Paesi occidentali di lunga tradizione democratica, ma in quelle Costituzioni sudamericane che hanno conservato un legame con le religioni originarie e la natura».
Lei immagina, quindi, nuovi diritti «utopici»?
«Certo, come quello di andare in un posto a piedi finché non si dimostri che per la lunga distanza non siano necessari dei trasporti. Le passeggiate non dovrebbero essere solo per le escursioni del fine settimana, ma per gli spostamenti quotidiani nelle piccole città. Penso a Zurigo, dove ho vissuto per diversi anni. Immagino, quindi, città basate sull’idea di potersi spostare a piedi».
Parliamo del mondo orfano delle utopie. Lei ha contrapposto i «trader» agli «artigiani». Perché?
«Perché l’artigiano ha ancora un rapporto con le funzioni nel senso complessivo, compresa ad esempio la sensazione. L’artigiano è a volte un intellettuale, ma lavora con le mani. Il trader lavora col virtuale. È la nuova frontiera dello sviluppo economico, che sviluppo economico non è».
E cos`è, allora?
«È sviluppo finanziario, movimento di capitali. Poi va benissimo se il capitale cerca l’allocazione migliore. Anch’io ho la maggior parte dei miei risparmi in banca. Ma la finanza è qualcosa di diverso dall’economia produttiva. Abbiamo passato una frontiera con l’economia astratta e virtuale che si sposta per il globo. E tanto più si sposta, tanto più produce oscillazioni che danneggiano la stabilità. Non si crea nuova ricchezza, viene semplicemente spostata. L’intervento eccessivo della tecnologia accresce inoltre le grandi differenze socio-economiche. Chi dispone di capitali oggi schiaccia il bottone e fa passare averi dall’altra parte del globo. Chi ha come unico capitale la manodopera del proprio lavoro deve spostarsi in un altro posto e così si creano problemi».
Come se ne esce?
«Dando, per esempio, aiuti ai Paesi che hanno un eccesso di manodopera, come l’Africa, e non di produzione industriale. Occorre che sviluppino sempre più dell’artigianato locale e che possa essere sempre più esportato. Non bisogna esportare tutto il corpo, oltre alla mano, insomma. Bisogna creare ricchezza in maniera tradizionale».
Eppure, la ricchezza va in altre direzioni, mi pare. Basti pensare - fra i tanti - ad Elon Musk.
«Sì, persona molto intelligente, un visionario. Ma è diventato superricco perché le sue azioni sono salite in quanto aspettativa, non per la sua produzione di oggetti reali, siano essi automobili elettriche o altro. Tutto si basa sulla speculazione, prima ancora che gli oggetti e i prodotti ci siano».
Recentemente è uscito un saggio di Gabriele Balbi intitolato «L’ultima ideologia» e il riferimento è alla rivoluzione digitale. La cosiddetta rivoluzione digitale è anche l’ultima utopia massimalista?
«Non sono in grado di rispondere. È troppo complesso. Per certi aspetti è ovvio che dobbiamo vivere del digitale. È fondamentale e ci fa risparmiare del tempo e consente operazioni straordinarie di risparmio di inquinamento. Poi, se noi pensiamo che un sottoprodotto del digitale sono gli account social che vengono inventati e con cui i russi hanno influito sulle elezioni americane, mi vengono i brividi. Un’ombra e un lato incontrollabile c’è. Finché ci sono queste possibilità legate al digitale non viviamo solo in un’utopia, ma anche in una distopia».
«Sì, l’estetica è contagiosa»
Per capire la sua idea delle utopie minimaliste ci racconta la teoria delle finestre rotte (broken window)?
«Sì. Mi riferisco a una ricerca realizzata nella provincia americana qualche decennio fa. Avevano fatto degli esperimenti. Se in un quartiere disagiato c’è un edificio disabitato e un bullo comincia a tirare un sasso alla finestra e rompe il vetro, dopo poco tutti i vetri sono rotti da altre persone che lo imitano. Viceversa, nelle zone dove non ci sono finestre rotte, ma dei fiori al balcone e aiuole ben curate, anche il teppista non prende il sasso e non rompe la finestra».
Cosa vuol dire?
«Significa che l’estetica ci aiuta, l’estetica è contagiosa. Il brutto chiama il brutto e il bello chiama il bello. Se noi teniamo in ordine le cose noi facciamo qualcosa di utile per tutti. Chi rifà la facciata fa qualcosa anche per il passante che non abita in quella zona. Piano piano questo viene imitato anche dai vicini, magari per non far scendere il valore dell’edificio. Si parte dall’emulazione nei piccoli dettagli estetici e si arriva lì».
Lei rivendica due atteggiamenti salvifici per il nostro tempo: l’autocritica e l’introspezione.
«È inevitabile per uno psicanalista. Io rivendico il fatto che il dibattito politico non sia solo politico, ma anche psicologico. Perché il dibattito politico tende al paranoico, al puntare l’indice verso qualcuno che sta all’esterno. Il discorso va psicologizzato e portato sull’autocritica: cosa abbiamo fatto noi per questa situazione? Ci sono ad esempio moltissimi dibattiti mai completati in Italia sul fascismo. Mentre la Germania è stata capace di una forte autocritica sul nazismo».
L’esperienza della pandemia e della guerra, che rendono evidenti molti limiti del sistema attuale, potrebbero essere il motore di nuove utopie minimaliste?
«Purtroppo solo in maniera indiretta. Vediamo che tutti gli Stati si sono impegnati con l’accordo di Parigi sulle emissioni di gas serra, ma quasi tutti sono molto indietro con i compiti, senza un professore che potesse dare loro un brutto voto. In un qualche modo la guerra indirettamente funziona in questo senso. Infatti, i politici devono decidere di tagliare il petrolio e il gas di Putin. Indirettamente potrebbe essere l’occasione per accelerare la transizione ecologica, smettendo di parlarne soltanto, come avvenuto fino ad oggi. Speriamo che i politici più lungimiranti ci arrivino».
Lei si esprime contro la cultura della prestazione e delle ansie da essa generate. E ritiene che le nuove generazioni non sono amorfe, ma rifiutano di competere cercando uno spazio di introversione. In base a cosa lo afferma?
«Discutendo con i settantenni come me, che avevano vissuto l’esperienza del ’68, mi sembrava di avere notato che molti nostalgici lamentano il fatto che i giovani di oggi se ne stanno in casa a fare nulla, mentre noi agivamo nelle piazze. Beh, non è vero. Intanto perché questi giovani che agivano erano una minoranza. Si aveva la percezione che fossero la maggioranza perché andavano sempre sulla prima pagina dei giornali. In realtà alla fine erano il 10% dei giovani. Non è un caso che dopo il maggio del ’68 è stato De Gaulle a vincere le elezioni».
D’accordo, ma i giovani di oggi?
«Oggi, i giovani sufficientemente alternativi, e secondo me assai rispettabili, sono quelli che vanno in bicicletta invece che in auto, per esempio. Molti giovani sono entrati in un’altra ottica. Si dicono critici verso gli eccessi del capitalismo e della vita borghese. Hanno l’auto ma non pensano sia necessaria la seconda macchina. Coltivano i pomodori sul terrazzo senza fare rumore. Sono forme alternative, utopie minimaliste che vanno promosse, perché tra l’altro avvengono senza violenza. Questi giovani sono molti di più del 10% dei rivoluzionari del ’68. Sono il 20-30% dei giovani e tendono a crescere con le nuove generazioni. Non è difficile separare i rifiuti, per loro, sono automatismi che quelli della mia generazione non hanno. In questo ho fiducia. Non c’è tanto o solo un’ideologia indotta da professori universitari, ci sono dei giovani molto alternativi, ma lo sono come movimento di base».