L'intervista

«Non tutt* sono pront* a parlare come me»

La linguista Vera Gheno è convinta che è necessario "de-mascolinizzare" l'italiano – E anche lo svizzero-italiano – Ci spiega perché
Davide Illarietti
16.06.2024 15:30

Fare due chiacchiere con Vera Gheno è un’esperienza meta-linguistica straniante. Fin dalle prime comunicazioni per iscritto («volevamo chiederLe se è disponibile a un’intervista») ci si sente antiquati, anzi antiquat*, a tener conto delle nuove regole del linguaggio inclusivo. Non è solo questione di asterischi o del simbolo «ə» (per i profani schwà) che la comunità Lgbtqia+ chiede di inserire nella grammatica italiana. Anche passando alla comunicazione orale («pronto, Vera Gheno?») le cose sono solo in apparenza più semplici: gli stratagemmi dell’italiano parlato («diamoci del tu, è più comodo») aiutano fino a un certo punto. Bisogna badare a quel che si dice, e come lo si dice.

Il linguaggio «ampio»

Vera Gheno è diventata la socio-linguista più famosa d’Italia, un personaggio televisivo e divisivo, proprio come i simboli (*, ə) della «lotta» che porta avanti. Sceglie ogni parola con cura e la cambia, come da sempre fanno i rivoluzionari. Già sull’espressione «linguaggio inclusivo» ha da ridire: preferisce parlare di «linguaggio ampio» perché, dice, «la parola inclusivo presuppone che ci siano persone normali che ne accolgono altre, diverse». Oggi sarà ospite di un incontro a Grono (organizzano Soroptimist International Club Moesano e la Biblioteca Comunale, modera la giornalista Laura Zucchetti) per parlare del suo ultimo libro Grammamanti (Einaudi 2024) dove racconta il suo amore per la lingua italiana.

Un amore «diverso» e multigender, va da sé. Anche se la ricercatrice dell’Università di Firenze - capelli corti, look «manlike» o androgino come si diceva una volta - si confessa una «donna etero-cis-normativa» con figli («una donna e una madre» direbbe Giorgia Meloni) ha idee sulla sessualità aperte e «ampie» come il suo amore per la lingua. «Sono tendenzialmente cresciuta in una cultura legata al binarismo di genere - dice - ma per me non è stato per nulla traumatico rendermi conto che i generi in realtà sono più di due. So benissimo che per molti non vale lo stesso».

Mammətə e sorətə

Il problema è che nella lingua italiana i generi sono appunto due. E con questo binarismo linguistico si scontrano i sostenitori della «ə». Come funziona? Si pronuncia con un suono a metà tra «a» ed «e», come nel napoletano «mamm’t’» o «sor’t’» (tua mamma, tua sorella). Nella Svizzera Italiana prevale il femminile («la schwa») ma la forma corretta sarebbe al maschile («lo schwa») precisa Gheno, perché deriva da un termine tedesco di genere neutro («Das»). Qui la linguista stronca subito l’osservazione («è una cavolata») che sorge spontanea: se l’italiano avesse il neutro, come il tedesco, il problema sembrerebbe risolto. «In realtà quello che manca alla nostra lingua non è un terzo genere - precisa la studiosa - ma la possibilità di non esprimere alcungenere, e questa lacuna è appunto quello che si vuole colmare».

Si badi: nel parlare al telefono Gheno non usa asterischi o suoni strani, per spiegare questi concetti. «Lo farei - assicura - se parlassi di o con una persona transgender o che non si identifica nel binarismo di genere». Alla serata di Grono invece esordirà come d’abitudine con «buonasera a tuttə» e concluderà con un «arrivederci a tuttə». Il motivo, attenzione, «non è che voglio che lo schwà entri nella grammatica italiana» precisa. «Voglio sottolineare come l’italiano come lo conosciamo non è adeguato ad esprimere alcuni concetti. Non propongo una soluzione».

«Cultura maschilista»

Forse una soluzione non c’è. La «colpa» è delle lingue romanze, che funzionano così, e prima ancora del latino fino giù - chissà - all’indoeruopeo, suggeriscono le reminiscenze del liceo. «Ma la domanda è appunto perché le lingue funzionano così» obietta Gheno. «Le lingue riflettono le società e le culture che le producono, e nella nostra c’è una prevalenza maschile. È un androcentrismo linguistico, figlio di una cultura maschile e maschilista, in cui fino a poco tempo fa le donne non avevano alcuna voce in capitolo».

Vera Gheno è una donna che la sua voce la fa sentire, invece. E la sa usare. Collaboratrice per vent’anni dell’Accademia della Crusca, si è occupata all’inizio di comunicazione digitale (gestiva i social dell’Accademia nel periodo del dibattito sulla parola «petaloso», nel 2016, «un punto di svolta nell’attenzione mediatica sulla lingua in Italia» ricorda) e poi sempre più di sessismo e inclusività. Il suo lavoro, di per sé, è studiare i fenomeni linguistici. «A un certo punto però mi sono accorta che studiare il linguaggio della comunità Lgbtqui+ non era così ben visto all’interno della comunità scientifica, così come dall’opinione pubblica. Si possono studiare gli epistolari del 1600, con tutto il rispetto, e non come parlano alcune persone oggi. Questo mi preoccupa e mi fa arrabbiare».

Di recente la stessa Accademia della Crusca ha bollato come «mode culturali» non solo schwa e asterischi, ma anche l’uso dell’articolo davanti al nome («la Meloni», «la Schlein»), e le duplicazioni retoriche («i cittadini e le cittadine», «le figlie e i figli») che sono molto in voga nel linguaggio istituzionale, anche inTicino. Ma Gheno non si scoraggia. «Le istituzioni sono fatte di persone, che hanno i loro pregiudizi» sottolinea. «Faccio notare che in oltre quattrocento anni la Crusca ha avuto una sola direttrice donna, dal 2008 al 2014, e questo la dice lunga. Nel frattempo chi ne ha bisogno continua a usare queste nuove formule e io scommetto che tra venti, trent’anni saranno molti di più di oggi. Chiaro, non è un cambiamento facile da accettare».

La questione politica

C’entra anche la politica, come sempre. Alle recenti elezioni europee non si è votato sugli asterischi, ma una buona fetta dell’elettorato ha espresso preferenze conservatrici e Gheno sa leggere il messaggio. «Nel momento in cui metti in crisi il dimorfismo sessuale, senza volerlo metti in crisi il concetto di famiglia naturale, un concetto al centro delle attuali istanze conservatrici. È un cambiamento che non avviene dall’oggi al domani». Sulla politica Gheno non si sbilancia: con l’esposizione mediatica sono arrivate «richieste di esprimermi su praticamente qualsiasi questione» racconta, dalla questione migratoria alle votazioni ungheresi (sarà perché è nata vicino a Budapest, madre magiara e padre italiano). «Se Orbàn sta da una parte, io sto dalla parte opposta, questo posso dirlo». Ma non va oltre. Quello di Grono non sarà un comizio, insomma, ma nemmeno un evento facile da definire. La Svizzera italiana del resto «è una terra di prestiti linguistici e regionalismi, che dimostra benissimo come la lingua non è una cosa statica» ricorda la studiosa. Siamo pronti per Vera Gheno? Se dovesse lanciare l’evento, lei preferirebbe il femminile («siamo pronte per Vera Gheno?») oppure un titolo "non sessista": «Grono aspetta Vera Gheno, Grono in estasi per Vera Gheno» conclude scherzando. «Alla fine, una soluzione si trova sempre. Non è difficile come sembra».

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