69. berlinale

«Non volevamo rifare la serie Gomorra ma un film sulla perdita dell’innocenza»

L’autore Roberto Saviano e il regista Claudio Giovannesi raccontano «La paranza dei bambini»
Da sinistra lo sceneggiatore Maurizio Braucci, l’autore e sceneggiatore Roberto Saviano e Claudio Giovannesi, regista de La paranza dei bambini. (Foto Keystone)
Fabrizio Coli
12.02.2019 19:34

BERLINO - «La paranza dei bambini, il libro, è anche uno studio del potere. Invece il film è una fenomenologia del sentimento. Cosa succede a un ragazzino che fa queste scelte? Cosa succede a un ragazzino che pensa io tra quattro anni crepo?». Roberto Saviano, scrittore, autore del romanzo da cui il film è tratto, racconta il passaggio dalle pagine al grande schermo nell’incontro berlinese con il folto gruppo di giornalisti di cui facciamo parte. Il suo nome è noto. Ha scritto opere di forte denuncia della situazione di illegalità in cui versa il Meridione d’Italia, opere che sono diventate popolarissime anche grazie alla tv e al cinema: come Gomorra. Opere che gli sono costate una vita sotto scorta. Le scelte di cui parla sono quelle dei personaggi del film, ragazzini dei quartieri popolari di Napoli che intraprendono una carriera attiva nel mondo della criminalità organizzata.

«Certamente è una storia napoletana - continua Saviano - ma non è stato il nostro obiettivo raccontare Napoli. Napoli è una dimensione universale che racconta tutte le periferie. Il film vuole raccontare innanzitutto la generazione. I desideri che hanno i paranzini sono i desideri identici a quelli dei loro coetanei berlinesi o milanesi. La differenza è che loro hanno una lampada di Aladino che è la pistola, una cosa attraverso cui puoi ottenere tutto. Vuoi vestiti? Pistola. Vuoi essere figo? Pistola. Vuoi una macchina? Pistola».

La paranza dei bambini è però ben lontano dagli stilemi del film di genere. «Il tema dell’innocenza è fondamentale - sottolinea Giovannesi - c’era nel libro e lo abbiamo portato avanti nel film. È un film sulla perdita dell’innocenza. La macchina da presa doveva semplicemente stare sui volti perché è un modo per stare vicino ai personaggi. Non li giudichiamo, cerchiamo di provare empatia, cerchiamo di non considerarli buoni o cattivi ma di sentirne l’umanità. Nel momento in cui siamo passati dal libro al film abbiamo dovuto trovare una misura. Per me era fondamentale, perché l’evidenza del cinema richiede cautela nel mostrare certe scene che nel libro sono mediate dalla parola scritta. Il mio terrore era essere ricattatorio, essere pornografico, cioè fare qualcosa in funzione della macchina da presa per suscitare un’emozione. È ovvio che con i bambini qualsiasi cosa fai fuori misura diventa retorico, rischia il melodramma. Quindi per me si è trattato soprattutto di un lavoro di sottrazione. Un altro punto di partenza per noi era non fare Gomorra La Serie, che è un crime, un noir, un racconto di genere. Qua invece si trattava di prendere un’altra strada, dall’inizio della scrittura alla messa in scena». «ll prefinale di Germania Anno Zero, con il ragazzino che prova a giocare fra le macerie ma il gioco non si compie più: questa è l’immagine che mi ha guidato nel tema - conclude il regista -. Per quanto riguarda i riferimenti cinematografici che ho avuto in questo film, ci sono Rossellini e Rosi nella scrittura ma anche un certo cinema degli anni Ottanta che vedevo da ragazzino, teen movies tipo Stand by Me, tipo I Goonies, riferimenti molto diversi e lontani fra loro. In qualche modo adesso se ci ripenso rappresenta il paradosso, la contraddizione tra innocenza e ferocia, tra gioco e guerra».