Picasso ovvero la felicità delle metamorfosi

Nella primavera del 1917, Pablo Picasso (Malaga, 1881 - Mougins, 1973) e Igor Stravinskij (Lomonosov, 1882 - New York, 1971) si conobbero di persona. Già da alcuni anni i loro percorsi artistici, che fondano il Novecento, si erano intrecciati, come due grandi colonne autonome, ma appartenenti allo stesso tempio. La nuova stagione dei balletti russi fu il loro punto d’incontro. Nel cuore dell’Europa di quegli anni, a Parigi, Sergej Diaghilev stava ricercando i migliori musicisti ed i migliori pittori per la più alta sintesi delle arti. Picasso aveva da poco disegnato le scene ed i costumi per il balletto Parade, ideato da Cocteau con le musiche di Erik Satie; dieci anni prima, nel 1907, dipingendo un quadro famosissimo, Les demoiselles d’Avignon, aveva rivoluzionato la storia della pittura, scomponendo cinque rosee figure femminili in una spigolosa e irregolare tarsia africana, dove le forme si rifrangono e si ricompongono come attraverso i bizzarri giochi di un vetro infranto. Con quello strano dipinto aveva posto le premesse fondamentali del nascente cubismo; con quelle linee e quei colori spezzati e morbidi era nata una nuova armonia. Ora la Fondazione Beyeler di Basilea gli dedica una memorabile mostra, concepita in due fasi, ad integrarsi in un grande museo a tempo determinato: le oltre trenta sue opere appartenenti alla fondazione, più una vasta scelta di capolavori del suo periodo giovanile, il blu ed il rosa, a cura di Raphaël Bouvier.
In musica, a partire da La sagra della primavera, 1911, Stravinskij intraprese e percorse lo stesso cammino del grande artista spagnolo: rifacendosi anche lui ad un mondo lontano e primitivo, ispirandosi alle fonti di un humus anonimo e arcaico, seppe ridefinire le linee melodiche ricomponendole in elettrici ed intensi impasti timbrici e armonici. Guardando ad un tempo remoto, o a luoghi del mondo sino ad allora sconosciuti; mescolando la storia con il presente, il nobile con l’infimo, l’alto col basso, insieme rinnovarono la forma dell’arte, che disegna uno strano e bellissimo arco, ricongiungendo nell’estremità delle sue punte, come in un abbraccio felice, il passato più lontano al futuro più rarefatto. Se fino ad allora la cultura veniva identificata in un mondo prevalentemente nobile, tra le alte sfere di un’estetica colta e raffinata, agli inizi del secolo scorso, Picasso e Stravinskij furono tra i primi a rivalutare gli esempi del popolo, le espressioni della strada, le voci degli ultimi, traendo ispirazione dalle fonti più immediate e semplici. Quando nei primi anni del Novecento Picasso arrivò a Parigi, capì subito che l’imperante impressionismo poteva portare ad un’arte eccessivamente intellettuale. Per questo inaugurò la sua pittura concentrandola su due soli toni: dapprima il blu, poi il rosa - presenti in mostra le opere più significative - che da uno spazio gioiosamente esterno, ritornano ad un mondo rigorosamente interno: ritraendo le persone più semplici, gli individui più deboli. I vecchi, i bambini, i mendicanti; gli acrobati, i saltimbanchi, gli arlecchini, ritornando ad una pittura, come quella del suo amatissimo Toulouse-Lautrec, realistica e sociale. Quello che più stupisce, della grande affinità, dell’amicizia e dell’allegro accostamento Picasso-Stravinskij è il pedale di fondo: la stessa concezione di un’arte, una modernità, perseguita attraverso un’apparente e paradossale reazione; nella stessa ricchissima variazione sull’immenso tema della storia, di ciò che già esiste. Come ha scritto Hugo von Hofmannsthal, «una forte fantasia è conservatrice». Quanti artisti, soprattutto nel secolo scorso, si sono illusi che il nuovo, il moderno - ciò che è infallibilmente attuale - dovesse ricercarsi soltanto nell’originalità, in una forma radicalmente inedita. Quanti compositori e poeti e pittori, abbandonando le fonti del folclore, sradicandosi dalla tradizione, tagliando tutti i ponti con gli esempi del passato, sono caduti in uno sterile sperimentalismo. Al contrario, come due grandi alberi, Picasso e Stravinskij hanno decorato l’azzurro dell’arte, hanno scavato il cielo della storia, grazie all’energia proveniente dalle radici, ben piantate nelle profondità del tempo. Dopo il periodo d’avanguardia - uno scintillante prisma che nelle sue rifrazioni scompone e ricompone l’organico cristallo del mondo - dove la sottile compenetrazione Cézanne-arte negra ha dato magnifici frutti, entrambi, a partire dagli anni Venti, con il periodo Neoclassico, apparentemente, hanno voltato le spalle alla modernità, ripiegando su di un linguaggio più accademico e tradizionale. In realtà, il loro modo di operare non cambiò mai. Avevano una prodigiosa capacità di osservazione e di sintesi; i modelli da cui ispirarsi erano dappertutto: nei celebri capolavori della storia, nelle canzoni di strada, tra le chiacchiere della gente, nei totem e nelle sculture africane, nei volti dei grandi collezionisti, tra il brulichio delle nature morte, nella grezza consistenza di una carta, nelle marezzature del legno o nei decori di una stoffa; sotto il tendone di un circo, tra la confusione del luna park, nell’immagine e nella voce di una chitarra, simile ad una donna, come il più caro simbolo dei sentimenti e dell’anima popolare. Dagli affreschi della Catalogna alle melodie arcaiche slave, da Grünewald a Gesualdo, da Velázquez a Pergolesi, da Ingres a Cajkovskij, da Goya a Beethoven, i colori ed i suoni rimbalzavano nell’aria: con naturalezza, con furore, con gioia, scaturivano dal tempio della storia, si moltiplicavano, si intrecciavano, si dilatavano, mescolandosi con tutte le forme del mondo. In questo senso, la parola che meglio di ogni altra definisce l’estetica di Picasso, e il loro modo di operare è parodia: parodia in senso antico, classico. Come rifacimento, reinterpretazione, reinvenzione di un modello base, un archetipo che viene imitato, rivisitato, trasformato con un gusto ed una invenzione straordinari. Illuminante è la celebre frase di Picasso: «Io non cerco, trovo»: poiché sin dall’inizio si sono posti direttamente, semplicemente di fronte alla realtà; senza astratti intellettualismi, senza sterili ricerche ed eccessive speculazioni. Entrambi non credevano nel progresso, non credevano nella storia come movimento unidirezionale. Oggi, che i grandi problemi legati all’inquinamento, all’ecologia, ci hanno insegnato che non può esistere un progresso assoluto. Come ci insegna il mito, la più alta sapienza antica, tutto è paradossale, tutto è doppio e ambiguo. Come due geniali allievi di Ovidio e le sue scintillanti metamorfosi, con eleganza, con gioia, con ironia, con possente grazia, Picasso ed il suo corrispettivo musicale Stravinskij, ruotano allegramente sopra le nostre menti, secondo lo stesso movimento circolare, a spirale, della storia e del tempo.