Mitologia

Quando i classici conobbero i doni della dea Afrodite

Un suggestivo percorso letterario nell’universo agrodolce dell’amore
Sandro Botticelli (1445-1510) Nascita di Venere (1482-1485 circa), tempera su tela di lino, cm.172x278, Galleria degli Uffizi, Firenze.
Carlo Carena
23.04.2019 06:00

Di tutte le divinità dell’Olimpo pagano nessuna è venerata e ammirata, invocata e temuta come la divinità dell’amore, Afrodite/Venere. Se ne ricercano i piaceri, se ne temono i furori; da lei possono venire spassi o tragedie, può ispirare versi sublimi o satirici, purissime liriche e comiche sboccate. Un poeta elegiaco greco si chiese: cos’è mai la vita senza questa dea d’oro, senza i suoi doni di miele e i suoi fiori che tutti desiderano cogliere?

Da ciò l’interesse e le meraviglie che suscita e presenta un ricco, esauriente volume come Il dono di Afrodite. L’eros nella letteratura e nel mito in Grecia e a Roma di due docenti universitari italiani, Simone Beta e Francesco Puccio (Carocci, pagg. 199, 16 €). Lo definiscono essi stessi nell’Introduzione un viaggio nello straordinario e suggestivo mito di quella dea, dalla sua prima apparizione, nascente dalla spuma del mare qual è raffigurata nell’incantevole dipinto di Sandro Botticelli; e poi i suoi intrighi e le sue continue apparizioni e operazione fra gli dèi stessi, grandi guerrieri e principesse e poveri mortali; in poesie liriche, tragedie e commedie, favole e dialoghi filosofici, nelle più inestricabili peripezie e alle vette dell’arte. C’è un’intersecazione continua tra la vita e il mito, che li rende conoscibili e mirabili per i loro rimandi. La realtà rende partecipi delle vicende tragiche inventate dai poeti, e queste invenzioni trasfigurano realtà ed esperienze umane quotidiane.

Sintetizza la personalità della dea e tutto ciò Esiodo quasi ai tempi di Omero e alle origini della poesia europea stessa, quando in due versi del suo poemetto sull’origine degli dèi ne fa Colei in cui si ritrovano «le chiacchiere delle fanciulle, i sorrisi, gli inganni, | il dolce piacere e l’amore che ha lo stesso sapore del miele». Di lì e dopo di lì è tutto uno sgranarsi dei più vari sentimenti, di repulse e sospiri verso colei che è la sposa di un marito orrendo, lo zoppo Vulcano dio delle fucine e dei brutali Ciclopi, e l’amante di una moltitudine quasi incalcolabile di numi in cielo e di mortali in terra. E anche lei, fra queste vicende, interprete e vittima della sua stessa potenza e dei suoi stessi malanni.

Innamorata un bel giorno del giovane Adone, la dea trascura le spiagge e le città a lei care, si tiene lontana dal cielo stesso per poter stare vicino a lui e proteggerlo; anziché godersi come fino ad allora luoghi ombrosi in cui riparare e curare la propria bellezza, lo accompagna mal vestita e ansando nelle cacce tra foreste e burroni. Tutto invano, perché infine un cinghiale inferocito ferisce il giovane a morte mordendolo con le sue zanne affilate.

Tra commedia e tragedia
E cosa non avverrà quando tutto ciò viene trasferito dalla dea sulle sue vittime, sulle vittime umane della passione inarrestabile? Essa fa di molte donne le protagoniste infelici di alcune fra le più grandi tragedie del teatro antico, e da quello passate al teatro moderno: due segnatamente, Medea e Fedra.

Medea, principessa del barbaro oriente, perde la testa il giorno in cui si presenta alla sua corte Giasone, capitano di una spedizione, degli Argonauti, che ha qualcosa di simile non solo nel nome con i nostri Astronauti. Medea allora pianta tutto per seguirlo, e ingelosita gli sacrifica persino i propri figli. La gelosia, questa compagna di Amore dissennata e travolgente sempre in agguato. Nessuno l’ha mai rappresentata in modo comparabile ai versi di Saffo: «Allora la lingua mi si spezza, e subito un fuoco sottile | mi corre sotto la pelle, | con gli occhi non vedo più nulla, nelle orecchie | sento un rombo, | un freddo sudore mi scende lungo la schiena, | sono tutta presa da un tremito, sono più verde dell’erba, mi sembra di essere poco lontana dalla morte».

Fedra moglie di Teseo re di Atene si dà la morte nemmeno per gelosia di una donna, ma per la sola indifferenza del figliastro Ippolito, che anziché lei coltiva gli sport equestri. Ciò che è tremendo in essa e per essa è la coscienza del suo stato e dell’irragionevolezza della sua passione e del suo accanimento: tipico anche ciò di Afrodite. Capire non serve a nulla. «Cosa potrebbe fare la ragione? Vince e regna la follia, | domina su tutta la mia mente il forte nume» dice Fedra nell’omonima tragedia di Seneca.

Anche ad Elena, moglie di Menelao e regina di Sparta, cosa mancava? Ma un bel giorno passa di lì un bellimbusto troiano, un certo Paride, e la bella Elena lo segue a Troia scatenando quel po’ po’ di trambusto che distrugge Troia e infiniti addusse lutti ai Greci e principi ed eroi travolse agli Inferi, come canterà Virgilio.

Ma c’è anche chi riesce a buttare tutto ciò in commedia anziché in tragedia. Date in mano il potere alle donne, ed ecco cosa càpita. Lo rappresenta Aristofane sulle scene ateniesi verso la fine del V secolo. Lisistrata si pone alla testa delle donne e proclama lo sciopero a oltranza dei rapporti coniugali finché i mariti non porranno fine alle guerre dissennate fra le loro città. Un impegno gravoso anche per loro stesse. Ma va a finire bene, poiché lo scopo è ottenuto e si fa festa.

In un’altra commedia, Le donne all’assemblea, le donne ateniesi spodestano i mariti e assumono addirittura il potere in città, rovesciando il regime e le regole vigenti. Una delle prime regole, raccapricciante per i maschi ma consona alle norme della democrazia per cui tutti sono uguali, impone che per possedere una bella giovane bisogna prima soddisfare una vecchia brutta; e se non ce la fai perché questa è troppo ributtante, ricorri a qualche afrodisiaco, tralascia la lattuga e mangia una pentola di cipolle bollite bevendo un bel bicchiere di vino schietto, grande rimedio a tutti i mali dell’esistenza. Cosa stai a parlare a tavola di battaglie e di guerre sanguinose? Osserva invece un altro poeta, Anacreonte, e ricorda piuttosto l’amata felicità. Oppure ascolta Asclepiade: bevi, perché piangi, la crudele Afrodite non ha catturato solo te; perché vivi come se fossi morto? Beviamo la pura bevanda di Dioniso: il giorno dura un dito, e presto dormiremo una notte senza fine.

Qualcun altro – i filosofi – ha cercato altri rimedi, più nobili ma più difficili, anziché nell’ebbrezza, nella ragione, tentando di mettere ordine e misura, se possibile, in tanto bailamme. Il vero, più profondo e sacro vincolo e fine dell’amore è, secondo Plutarco, un’amicizia virtuosa, in cui il piacere fisico favorisce la contemplazione dell’anima. Afrodite s’impadronisce delle anime e tramite l’amore le guida verso il bene, le rende salde nell’affrontare insieme gioiosamente i casi dell’esistenza. E quell’altro grande saggio, e poeta, Orazio, che pur cerca sempre di godersela, trova che per godersela per bene occorre non perdere mai la testa, e non farsi governare da lei; ben vengano i piaceri, anche quelli di Venere assieme a quelli di Bacco, ma per non guastarli, e non guastarci, non esageriamo. Certo perderemo l’ebbrezza dei folli amori, l’esperienza delle grandi passioni, ma tutto sommato meglio così, perché il prezzo da pagare è troppo alto e fatti bene i conti il gioco non vale la candela.

Così termina la carrellata del volume sui doni di Afrodite, ben governata dagli autori, con citazioni opportune in traduzioni fedeli ai testi originali. Ne risulta evidente l’efficacia delle personificazioni mitologiche per esprimere sentimenti e concetti a volte propri delle scienza, come qui soprattutto della psicologia, e dei meandri più nascosti e indecifrabili della psiche umana.