Quando il dirigibile prese il volola canzone non fu più la stessa

Il doppio album dal vivo, uscito nel 1976, prende il titolo di una loro canzone, The Song Remains the Same, «la canzone rimane la stessa». In un certo senso è vero l’esatto contrario. Con l’avvento dei Led Zeppelin cambiò tutto, in modo permanente. Se i primi vagiti di quel gruppo sono dell’estate del 1968, quando ancora si chiamavano New Yardbirds, l’esordio discografico è il 12 gennaio del 1969, con la pubblicazione negli USA dell’omonimo album Led Zeppelin. L’anniversario pieno che cade oggi a cinquant’anni di distanza è un’occasione per parlare di come questa band ha cambiato il volto del rock, influenzato tutti coloro che con una Les Paul a tracolla e un Marshall dietro la schiena hanno mai sognato il rock’n’roll. Anche a casa nostra. Ce lo raccontano Leo Leoni dei Gotthard, Jgor Gianola suo collega nei CoreLeoni e Marcel Aeby dei More Experience.
«Siamo zeppeliniani anche quando non lo siamo, per forza. Anche io che sono cresciuto con gli AC/DC». Mettiamola così e facciamola semplice: se suoni hard rock, se il rock’n’roll è la tua vita, dai Led Zeppelin non puoi proprio prescindere. Parola di chi ne capisce. Come Jgor Gianola, chitarrista dei CoreLeoni, degli Alto Voltaggio e in passato con i Gotthard, con gli U.D.O. e con altri artisti sui palchi di mezzo mondo. Prima o poi si arriva sempre a Jimmy Page, Robert Plant, John Paul Jones e John Bonham. Che sia col primo album degli Zeppelin, uscito esattamente cinquant’anni fa, o con un altro dei capolavori della band britannica che in una dozzina d’anni, fino alla morte di Bonham nel settembre del 1980, ha cambiato per sempre il volto del rock. «Non ho un ricordo preciso di quando ho sentito per la prima volta il primo disco dei Led Zeppelin – ci dice infatti Jgor – Paradossalmente il primo loro album che ho ascoltato è stato l’ultimo, Coda. L’avevo comprato in cassetta per curiosità, avevo una decina d’anni. E devo ammettere che allora non mi aveva fatto impazzire, non ero ancora maturo per quello, è stato come con Hendrix che ho apprezzato più tardi. Il primo ricordo nitido dei Led Zeppelin, di quando ho cominciato ad amarli, è quello di una gita con amici, su un autobus. Qualcuno ha messo su Stairway to Heaven. Avevo dodici o tredici anni. Da lì sono andato a ritroso, ho preso gli altri album fra cui il primo. I miei preferiti sono Led Zeppelin IV e Houses of The Holy. Ma anche gli altri: hanno fatto una sfilza di dischi pazzeschi».
Parlare degli Zeppelin vuol dire parlare di un periodo rivoluzionario della storia del rock, di cui proprio loro sono stati fra i protagonisti assoluti. «I Led Zeppelin sono la radice di quello che poi ho seguito nella mia carriera – continua Jgor –. Secondo me sono stati loro la partenza, in un certo senso hanno inventato l’hard rock così come lo conosciamo al giorno d’oggi. Non erano gli unici, però sono quelli che con quei suoni lo hanno portato a un livello mondiale, l’hanno consacrato. Le influenze le hanno avute anche loro. Nel periodo dei loro esordi girava Hendrix. Gli Yardbirds stessi, da cui poi gli Zeppelin si sono sviluppati, avevano già iniziato certe cose. Però secondo me l’hard rock l’hanno consolidato proprio loro. Poi quel tipo di suono ha influenzato anche i Deep Purple, i Black Sabbath e le band che sono arrivate dopo. Anche altri gruppi enormi come gli AC/DC hanno preso da loro: se ascolti Riff Raff è praticamente un Rock’n’Roll dei Led Zeppelin modificato, il riff di Paranoid dei Black Sabbath è praticamente il break di Dazed and Confused. Chiunque fa hard rock i Led Zeppelin ce li ha dentro. Avevano questo carico di blues fichissimo ed erano anche molto psichedelici. Erano sperimentatori, come molte delle band loro contemporanee. Cosa che manca al giorno d’oggi». «Il fuoriclasse per me era Bonham e ci affiancherei Page ma il punto è un altro. In gruppi così c’era la chimica. Per esempio Plant non è il mio cantante preferito. La mia donna in questo momento mi sta fulminando con lo sguardo – ride Jgor mentre parliamo al telefono – ma là dentro quella chimica la potevano creare solo loro».
«Parliamo del 1969, il momento della nascita dell’hard rock», concorda Marcel Aeby, anche lui musicista di lungo corso, leader dei More Experience, fra le più quotate tribute band hendrixiane, nonché archivista alla Fonoteca nazionale. «Qui siamo nel blues e anche nel rock piuttosto duro. Non scherzavano! Basta ascoltare Dazed and Confused. Non li ho mai visti dal vivo, ma quando ho conosciuto il mio bassista Henry Imboden, nel 1975, lui era stato a vederli a Montreux qualche anno prima. Diceva che era stato un concerto bellissimo e fuori di testa. Io ho visto Page & Plant molti anni più tardi, in un open air, con l’orchestra nordafricana». Da chitarrista poi, Marcel non può avere che grande rispetto per Page. «Abbiamo ricevuto qui alla Fonoteca il fondo di Caterina Valente – ci svela –. Cosa c’entra? Dentro uno dei suoi primi dischi in vinile c’era un foglio della biografia di Page. Il primo passaporto che si è fatto fare era nel 1964 perché era stato chiamato come session man in Germania proprio per registrare un disco di Caterina Valente». Cresciuto come session man Page è diventato ben presto uno dei più celebri guitar hero di tutti i tempi. «Che Page sia un mostro alla chitarra è cosa nota. Un grande chitarrista e compositore anche: la sua visione delle armonie, le sue open tunings... La domanda è sempre chi è il più grande chitarrista del mondo: io penso che non ci sia risposta. Per me chiaramente Hendrix è lì sul piedistallo. Ma se parli di Hendrix, di Page, di Jeff Beck son tutti lì, sono tutti mostruosi».
«Senza gli Zeppelin chissà, i Gotthard forse ci sarebbero stati lo stesso. Che genere avrebbero suonato, beh è tutto un altro paio di maniche». Anche la rockband nazionale numero uno ha assorbito la sua brava dose di radiazioni zeppeliniane, anche se, ci confida il fondatore Leo Leoni, «io sono più verso i Deep Purple e il primo amore sono stati i Beatles, la mia band preferita. Gli Zeppelin però sono stati una band importantissima per tutta la scena musicale rock. Quello che hanno fatto è immenso. Alla fine, con i Gotthard dei loro brani abbiamo suonato Rock’n’Roll e Immigrant Song. Come li ho conosciuti? A quei tempi c’erano ancora i poster che si attaccavano in giro nei locali. A un certo punto ho visto la foto di questo chitarrista con in mano una chitarra a doppio manico. È così che li ho scoperti, partendo da Stairway to Heaven. Sempre legato alla chitarra a doppio manico (nel frattempo anche Leo aveva avuto modo di procurarsene una, ndr.), c’era un pezzo in cui, anni più tardi, la utilizzavo e Steve mi faceva sempre battute, dicendomi chissà cosa sai fare con questa. Una sera, a un festival, doveva essere durante la tournée di Domino Effect, ho attaccato Stairway to Heaven e lui ha cominciato a cantare. Io ho continuato, lui ha continuato e siamo arrivati a due terzi del pezzo: il finale è stato con tutta l’audience in visibilio che rispondeva “...and she’s buying a Stairway to Heaven”. Un bellissimo ricordo. È vero che Steve l’ho conosciuto che cantava Child in Time dei Deep Purple, ma quando ero ospite nel loro locale prova ai tempi in cui lui suonava in un gruppo che si chiamava Cromo, anche i brani degli Zeppelin erano presenti per questi ragazzi che sognavano di fare il rock’n’roll. Come poteva essere Steve, come potevo essere io e tante migliaia di altri».
«Ascoltando oggi il loro primo album ti domandi come hanno fatto a fare queste cose cinquant’anni fa, è ancora epico. Erano veramente lungimiranti – continua Leo – Sono passati dal blues a quello che poi ha dettato legge dal rock in avanti. E lo hanno fatto registrando quell’album in pochissime ore, uno dei dischi più giganteschi della storia. Jimmy Page è sempre stato un grande chitarrista, un innovatore, un pioniere, ha provato di tutto e di più. E anche un grande produttore. E poi comunque avevamo un John Paul Jones: buongiorno a tutti sia come bassista che come compositore, arrangiatore e tastierista. Di Robert Plant si potrebbe parlarne per ore, per la sua vocalità e per il suo impatto scenico. È diventato un sex symbol, un’immagine per tutti, come tutta la band. Stiamo parlando di gente che ha riempito i nostri cuori – conclude Leo –. Non lasciano un vuoto perché comunque sono sempre qua, un po’ come i Beatles, sono sempre presenti. In tutta la musica che sentiamo oggi c’è sempre un po’ di Zeppelin o di Beatles. Per fortuna sono arrivati. Non ci fossero stati sarebbe stato giusto inventarli o mandare una lettera a Babbo Natale e chiedere di portarceli. Hanno fatto in modo che il sogno si avverasse anche per tanti altri».

Il debutto discografico
«UNA ROCKBAND IN CALORE»
CATTURATA IN NOVE BRANI
Trenta ore di lavoro sparse nell’arco di due settimane, tra registrazione e mixaggio. 1.782 sterline dell’epoca il costo complessivo, copertina compresa, la rimanipolazione ad opera di George Hardie della celebre foto del dirigibile Hindendburg in fiamme nel 1937. L’album ha venduto finora una decina di milioni di copie nel mondo. Ma che il gruppo fosse destinato a diventare una macchina da soldi lo dimostra anche l’anticipo che il manager Peter Grant riuscì a strappare all’etichetta Atlantic, una cifra inaudita per quei tempi, maggiore anche dell’anticipo ricevuto dai Beatles: 200 mila dollari. Il 12 gennaio di cinquant’anni fa, nel 1969, usciva in America Led Zeppelin, il primo, omonimo album di quella che diverrà la più grande rockband degli anni Settanta. La rivista Rolling Stone lo stroncò. Il pubblico di quella critica se ne fregò bellamente. In Inghilterra sarebbe stato pubblicato alcuni mesi dopo, in marzo.
Jimmy Page, Robert Plant, John Paul Jones e John Bonham lo registreranno in ottobre, agli Olympic Studios di Barnes, nel sud di Londra. Ricorda Stephen Davis, autore de Il martello degli Dei, la storia degli Zeppelin, che i nove brani che lo componevano erano in pratica la scaletta del tour scandinavo intrapreso dalla band come New Yardbirds nel mese di settembre a parte Train Kept A-Rollin’ e We’re Gonna Groove. Prodotto da Page, venne registrato da Glyn Johns praticamente dal vivo. L’idea era quella di catturare lo spirito dei primi live della band e di aver qualcosa – scrive ancora Davis – da vendere durante la tournée americana, prevista l’anno seguente.Pochi effetti speciali perché in scena sarebbe stato difficile riprodurli. «È stata una registrazione vecchio stile». A ricordarlo, citato da Chris Welch nella biografia di Peter Grant, è John Paul Jones. «Ci installammo all’Olympic con giusto qualche schermo a coprire gli amplificatori. Era una grande stanze “live” e così ogni cosa filtrava in tutte le altre, era parte del suono». Già il suono. Page, oltre ai microfoni di fronte agli amplificatori ne metteva dei secondi a una decina di metri, per poi – riporta Davis – registrare la media fra i due. «Il concetto di fondo – ebbe a dire il chitarrista – è quello di cercare di catturare il suono della stanza dal vivo e l’emozione dell’intero momento per poterla comunicare... Si deve cercare di catturare il suono dell’ambiente quanto più è possibile. È questo il punto fondamentale».
Good Times, Bad Times apre il disco. Per dirla con la rivista Classic Rock, è «il presagio del suono che definirà gli anni Settanta». Un riff secco e incisivo e poi c’è già dentro tutto. La chitarra di Page, la voce imperiosa di Plant, la potenza di Bonham e le complesse architetture di John Paul Jones. Altro brano dall’immediatezza devastante è Communication Breakdown, con quelle pennate ostinate e i pochi accordi che bucano come una trivella. C’è tanto blues nell’album, perché gli Zeppelin già dall’inizio sono maestri nel prendere da altri, rielaborare e fare proprio ciò che piace loro, dandogli una forma personale. You Shook Me e I Can’t Quit You Baby sono di Willie Dixon e il bluesman Howlin Wolf serpeggia in How Many More Times. La ballata Babe I’m Gonna Leave You che fra le loro mani si gonfia di potenza è in origine di Anne Bredon, divenuta celebre nella versione di Joan Baez. Il suggestivo intro di organo di John Paul Jones annuncia Your Time is Gonna Come, canzone che richiama da vicino i Traffic e che si fonde con le influenze folk della strumentale Black Mountain Side con tanto di timbri esotici (la arricchisce un suonatore di tabla, Viram Jansani). Ma l’apoteosi è Dazed and Confused. L’ispirazione è un brano scritto da Jack Holmes. Gli Zeppelin lo cambiano, stravolgono, se ne appropriano e quel pezzo diventa un assoluto cavallo di battaglia, che dal vivo sostiene per mezz’ora le improvvisazioni di Page, che suona la chitarra con l’archetto da violino. Un calderone che coniuga un inizio ipnotico e parti che influenzaranno il futuro heavy metal.
«Fu tremendamente eccitante fare quell’album – ricorderà Glyn Johns –. Prima di allora non avevo mai sentito arrangiamenti di quella specie, né avevo mai sentito una band suonare in quel modo. Era sempicemente incredibile». Molto di quello che si svilupperà negli anni a venire è già abbozzato in questo disco. L’impatto, l’energia, la potenza, ma anche la fantasia e la genialità, il muoversi tra pesantezza e leggerezza, le soluzioni per nulla scontate, l’impasto dei suoni. E pure qualcos’altro, che si legherà all’immagine degli Zeppelin e a quella di Plant prima di tutti. Davis la mette così, dicendo che l’album cattura «l’ambiguo e semplice eccitamento di una rockband in calore». Plant è schiettamente più esplicito: «Ciò che sentivo dalle casse mentre cantavo era di gran lunga meglio di qualsiasi figa dell’intera Inghilterra. Era così forte, aveva così tanto potere. Era devastante. Era tutto sessuale: molto oscenamente».

IN DODICI ANNI
CAMBIARONO IL VOLTO DEL ROCK
Comincia tutto nel 1968. Il chitarrista Jimmy Page, uno dei più quotati session man inglesi del periodo si ritrova a gestire la fine degli Yardbirds, gruppo dove è entrato qualche anno prima. Mentre gli altri membri lasciano la band c’è un tour già pianificato in Scandinavia da onorare. C’è bisogno di nuovi musicisti. La scelta alla fine cade sul cantante Robert Plant, il batterista John «Bonzo» Bonham e il bassista e polistrumentista John Paul Jones, anche lui nel giro delle session. Il 12 agosto 1968 la prima prova dei quattro a Londra, sulle note di Train Kept A-Rollin, quando ancora si facevano chiamare nuovi Yardbirds. La prova è esplosiva, l’energia che si crea verrà tramandata come leggendaria. Tutto va veloce: il tour scandinavo, le registrazioni di quello che diventerà il primo disco e in ottobre il cambio di nome. Led Zeppelin e Led Zeppelin II usciranno entrambi nel 1969. E da lì in poi è il delirio. Tour martellanti, dischi in continuità. Un successo di pubblico immediato che si consolida passo dopo passo. Prima di tutto negli Stati Uniti, da subito la loro patria d’adozione dove, dati ufficiali, hanno venduto a oggi 111,5 milioni di album (secondo i dati di Forbes dello scorso anno nel mondo si parla invece di 300 milioni). In un lampo i Led Zeppelin diventano il paradigma assoluto della rockband: enorme, grandiosa e fuori controllo. I biografi hanno riportato storie di eccessi, devastazioni, sesso e violenza legate alla band o al suo entourage. Hanno parlato della loro feroce road crew, dell’aggressivo manager Peter Grant che per i suoi ragazzi era disposto a tutto, dei contratti d’oro, dei flirt di Page con l’occulto. Anche l’industria deve fare i conti con il loro atteggiamento da conquistatori. Sarà Grant, ad esempio, a cambiare i rapporti di forza tra promoter e artisti a favore di questi ultimi. Tutto quello che li riguarda in ambito rock fa scuola. Persino la loro biografia, Il Martello degli Dei di Stephen Davis pubblicata per la prima volta nel 1985, diverrà il calco per tutta la letteratura rock a venire. Tutto intorno a loro si colora di mito. E ad alimentarlo oltre alla loro immagine c’è la musica. Concerti epici e album grandiosi che hanno cambiato il volto dell’hard rock, con un suono nato dal blues, induritosi, pronto a ricevere suggestioni dal folk e dalla fantasia sperimentatrice dei quattro. Sono capolavori quelli che sfornano, come il quarto album, quello misterioso e senza nome del 1971, dove c’è il loro brano più conosciuto Stairway to Heaven. Nel 1974 i Led Zeppelin fondano la loro etichetta, la Swan Song Records. Il doppio Physical Graffiti del 1975 è un’altra delle pietre miliari. La fine arriva con la morte di John Bonham il 25 settembre del 1980. Aveva bevuto un quantitativo di alcol impressionante (la stampa parlò di 40 cicchetti di vodka) ed era morto soffocato dal suo vomito. Nove album in studio (l’ultimo Coda, uscito postumo nel 1982), uno dal vivo, il doppio The Songs Remains The Same nel 1976 colonna sonora dell’omonimo film concerto (a questi si sono aggiunti negli anni altre raccolte e live come How The West Was Won e Celebration Day). Dodici anni, tanto è durato il volo che ha cambiato per sempre il rock. I supersititi si sono riuniti nel 1985 per Live Aid, per una manciata di cerimonie come l’ingresso nella Rock and Roll Hall of fame nel 1995 e per il concerto alla 02 Arena di Londra nel 2007. Voci su una loro possibile reunion continuano a rincorrersi. Loro hanno sempre smentito. Fin qui.

PICCOLI CLONI CRESCONO:
I GRETA VAN FLEET
L’eredità musicale degli Zeppelin pervade ogni gruppo robustamente rockeggiante dagli anni ’70 in avanti. È come un fiume che bagna le rive di un mondo fatto di amplificatori, chitarre elettriche e libertà. Quello che ci germoglia non può che nutrirsene. Talvolta però più che gruppi influenzati da questo sound, spuntano dei veri cloni. Quelli più recenti, che stanno facendo un gran parlare sulle riviste specializzate e fra chi ama le sonorità degli Zep, sono i Greta Van Fleet, dal Michigan, creatura musicale dei tre giovani fratelli Kiszka (Joshua alla voce, Jacob alla chitarra e Samuel basso e tastiere). Si sono fatti conoscere fra 2016 e 2017 con gli ep Black Smoke Rising e From the Fires. È da poco uscito l’album Anthem of the Peaceful Army. Sono imbarazzanti per quanto copiano, per le somiglianze nei suoni, nelle atmosfere, nella voce. Metti su Safari Song e senti Plant e le chitarre di Rock’n’Roll e Celebration Day, il charlie di Whole Lotta Love. Ma accidenti quanto lo fanno bene!