La riflessione

Quando la realtà è a due dimensioni

La tecnologia, che passa ormai in massima parte attraverso schermi e video da sfiorare con i polpastrelli, ha drasticamente ridotto il rapporto fisico con le cose, che dunque ci appaiono sempre più piatte e prive di prospettiva
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Roberto Cotroneo
26.06.2020 06:00

Colpisce molto dover prendere atto che la cultura non è stata in grado di supportare in modo vero la crisi mondiale data dalla pandemia di COVID- 19. Lo ha fatto al solito modo, apparendo, dando opinioni spesso vaghe, esprimendo vicinanza emotiva, organizzando eventi, spesso online, che potessero confortare. Ma gli intellettuali non devono necessariamente apparire e non devono avere delle opinioni su cose che non sanno. Devono guardare il mondo e cercare di capire quello che altri non afferrano. E allora faccio un passo indietro per raccontare una storia.

Tre anni fa è uscito in Italia un libro molto interessante, lo ha scritto Giuliana Bruno. La Bruno è un’italiana, nata a Napoli, che vive a New York da 40 anni. E insegna «Visual and Environmental Studies» alla Harvard University dal 1990. La piccola casa editrice Johan & Levi ha pubblicato il suo Superfici. Un testo molto interessante, che spiega come le superfici abbiano influenzato l’arte, il cinema, la letteratura e persino la percezione che abbiamo delle cose. Cosa intendiamo per superfici? Esattamente quello che sto dicendo. Nei prossimi mesi i giganti della tecnologia, soprattutto Apple e Samsung, annunceranno i loro nuovi smartphone. Che saranno tutti, neanche a dirlo, sempre più sottili, persino flessibili, addirittura apribili. Da anni ormai l’indice di qualità di qualsiasi cosa di tecnologico che possediamo sta nella sua leggerezza e nel farsi sempre più sottile: vale per i televisori, per i computer, per i telefoni e per mille altri oggetti che sono entrati nella nostra vita in una maniera massiccia.

Tutti questi strumenti però hanno tre caratteristiche che ci portano dritti al tema che vogliamo affrontare. Sono touch, sono connessi con il web, e dunque con l’intero mondo, e sono piatti. Cosa significa? Significa che li comandiamo con le dita, con dei gesti sempre simili uno con l’altro, che li utilizziamo per stare nel mondo e che ci ricordano che tutto quello che passa dagli schermi ha solo due dimensioni e non ha corpo.

Queste tre cose sono determinanti. Siamo abituati a compiere dei gesti simili per fare cose diversissime: pagare una bolletta o controllare il saldo in banca chiede gli stessi momenti e restituisce la stessa sensazione di avviare un video, di guardare meglio una foto dei propri figli, di scattare una fotografia, persino di scrivere un messaggio sentimentale. Le dita sentono sempre la stessa superficie sotto i polpastrelli per gesti che non dovrebbero avere nulla a che fare l’uno con l’altro.

Inoltre le superfici ci dicono che non abbiamo coscienza di quello che sta dentro i dispositivi che usiamo. Nessuno sa come è fatto e come funziona uno smartphone, un computer e neppure un televisore. Ormai neanche un frullatore, o una lavatrice: elettrodomestici che hanno adottato comandi touch perché considerati più moderni e più attraenti. In questo mondo di superfici ci siamo mossi ancora di più negli ultimi mesi e forse lo faremo anche nei prossimi anni. Lo smartworking è fatto di touch e superfici, il sapere come stavano i congiunti quando non si potevano incontrare era fatto di schermi e superfici. E di schermi e superfici buona parte delle nostre vite.

L’arte contemporanea, e Giuliana Bruno nel suo libro lo spiega bene, passa ormai per buona parte da schermi e video. Fa a meno sempre più spesso di materialità e fisicità. La nostra mente si sta abituando a non poter toccare le cose, ma a sfiorare schermi tutti uguali. E se la nostra mente si abitua a questo muta la nostra capacità di provare emozioni. Lo spazio vitale si restringe sempre di più in quello che chiamerei un concetto prospettico. La distanza è annullata, ma lo spazio è ridotto a due dimensioni, obbedisce alle regole ben note della prospettiva, ci impedisce di sentire la distanza come una possibilità, la vicinanza come una conquista. Chiunque fa una passeggiata in montagna sa esattamente cosa significa muoversi nello spazio tra le cose, sa misurare le distanze. Il cinema ha cambiato questa percezione ormai da tempo, l’arte la sta cambiando, spostando l’opera dentro una superficie sottile. Ma il nostro mondo quotidiano non era ancora obbligato a fare i conti con questo. Le nostre emozioni restavano fuori: dai social network, dal web, dai computer. Per molti mesi siamo stati obbligati a trasformarle in qualcosa d’altro, dentro la linea sottile degli oggetti che ci mettono in comunicazione con il mondo. E adesso si tratta di recuperare la fisicità delle cose. La trama delle nostre vite.

Di questo dovremo occuparci, di questo dovremo discutere. Come cambieremo dopo ciò che è accaduto? La risposta va cercata su questi terreni. Non in parole, spesso sempre uguali, che si leggono dappertutto, ma che non arrivano al fondo delle cose. Cosa fare dei nostri corpi oltre a farli riprendere da una telecamerina? Cosa dire ai nostri polpastrelli che sfiorano solo superfici tutte uguali?