Musica

Quando Miles cambiò la tromba nel jazz

È in programmazione su Netflix e disponibile in DVD «Birth of the Cool» appassionante documentario di Stanley Nelson che aggiunge interessanti dettagli, artistici ma anche umani, su una personalità fondamentale nello sviluppo e nell’evoluzione della scena improvvisata
Miles Davis (1926 - 1991). © Express Newspapers/Getty Images
Luca Cerchiari
03.07.2020 09:07

Fiorita quasi per strada, come componente di spicco delle numerose, ampie, pittoresche bande e fanfare che precorrevano le strade di New Orleans per feste e celebrazioni civili, come il Carnevale, o per processioni e per riti funebri, la tromba jazz deve i suoi natali a Buddy Bolden, un musicista rimasto ai confini tra mito e realtà per via del fatto che di lui, a parte numerose ammirate testimonianze verbali, non restano documenti discografici. È negli anni Venti, l’età di Al Capone e del Proibizionismo, di Francis Scott Fitzgerald e del charleston, che la tromba jazz cresce e si afferma, col clarinetto e la batteria, quale strumento-simbolo di un genere unico e fondamentale del panorama musicale contemporaneo. E, questo, lo si deve soprattutto a Louis Armstrong, che, a parte le originali e coinvolgenti qualità come cantante, ha saputo valorizzarla come veicolo di straordinarie invenzioni melodiche, estemporanee o pensate in anticipo che fossero. Conferendo alle frasi della sua tromba un calore e un’umanità che avrebbero portato la prima critica sul jazz, quella parigina anni Trenta di Hugues Panassié, ad identificarlo come musicista hot, ossia caldo, ma anche impegnato. Panassié, correttamente, vedeva in Armstrong il prototipo di un’espressività popolare e al contempo artistica, votata a quella ricerca estetica che connota tutti i grandi linguaggi creativi. Ma l’afro-americano Louis Armstrong, nella sua dilagante solarità comunicativa e sonora, nel suo volto eternamente sorridente, era in qualche modo legato allo stereotipo della cosiddetta blackface minstrelsy, appartenente al periodo nel quale i «neri», da poco affrancati dallo schiavismo, ebbero finalmente accesso al mondo dello spettacolo; a patto, però, di prendere in giro se stessi, seguendo l’esempio degli attori-musicisti bianchi che, in quella forma di spettacolo, degli uomini di colore offrivano un’immagine caricaturale, talvolta quasi oltraggiosa, tingendosi il volto di nerofumo e irridendo alla loro ignoranza e al loro spirito bonario e ingenuo, quasi primitivo.

La svolta modernizzatrice

L’immagine del musicista afro-americano e l’espressività sulla tromba jazz sono cambiate radicalmente nel secondo dopoguerra newyorkese, soprattutto in ragione delle nuove idee proposte dai musicisti anni Quaranta-Cinquanta degli stili be-bop e cool. Chi meglio di Miles Davis (1926-1991) ha impersonato questa affascinante svolta modernizzatrice? Fiero, intelligente, originale, polemico, razzista a rovescio, sempre elegante e à la page nel vestire, musicalmente raffinato, curioso di pagine orchestrali e di brani etnici spagnoli o inglesi, come anche, ovviamente, interprete partecipe del blues e della canzone di Broadway, poeta insuperato della sensibilità melodica sulla tromba (quella sordina dal suono così sottilmente, malinconicamente metallico...) e del più autentico romanticismo timbrico-espressivo, playboy dalle cento amanti, mogli e fidanzate (ricordiamo almeno la danzatrice Frances Taylor e la comedienne e cantante Juliette Greco, fascinosa musa dell’Esistenzialismo francese), talent-scout, «principe delle tenebre», camaleonte degli stili e delle scoperte di nuove forme e formazioni, predicatore laico di una musicalità capace di recepire fonti e simbolismi africani, precursore delle «svolte elettriche» nella strumentazione del jazz contemporaneo. Cos’altro dire del «nero» Miles Davis, personaggio unico e centrale del Novecento americano, che non sia già stato detto e descritto in libri, articoli, interviste, analisi e webgrafie, e che non si sia già ascoltato nel suo sterminato e fondamentale lascito discografico?

Inedite testimonianze

Eppure, di ogni grande, qualche angolo oscuro esiste sempre, e può venire alla luce. Ed è ciò che è accaduto grazie al regista afro-americano Stanley Nelson che con Birth of the Cool (il titolo è ripreso da un celebre disco davisiano fine anni Quaranta del «divino Miles») offre ora gustosi inediti fotografici e audiovisivi, musicali ed umani, come alcune testimonianze mai viste sinora della moglie Frances Taylor, come le istantanee scattate durante la registrazione in studio, a New York, di Birth of the Cool, e come sapide riprese musicali degli anni Settanta e Ottanta. Coadiuvato dallo scrittore ed esperto di letteratura Quincy Troupe, che aiutò Davis a scrivere una pittoresca autobiografia (pubblicata anni fa in italiano da Minimum Fax), Nelson ha svolto un lavoro eccellente, attingendo anche agli archivi sonori e visivi della Sony-Columbia, e completando il lavoro biografico-musicale già delineato da due esperti inglesi, il trombettista Ian Carr (scomparso da poco , leader del gruppo jazz-rock dei Nucleus) e dal regista Mike Dibb nel loro esaustivo ed emozionante DVD The Miles Davis Story (BBC-Sony Legacy 2001). Un documentario che presentato in anteprima al Festival JazzMi è ora in visione sulla piattaforma Netflix nonché disponibile in formato DVD.

Dagli anni Sessanta agli ultimi concerti

Birth of the Cool arricchisce una videografia davisiana già piuttosto nutrita. Ricordiamo almeno (tutti reperibili in DVD) i concerti degli anni Sessanta (Milan 1964, etichetta Impro-Jazz; European Tour 1967, Impro-Jazz; The 1969 Berlin Concert, Jazzshots) e i video sullo straordinario periodo elettrico (Miles Electric: A Different Kind of Blue, Eagle Vision 1970; Bitches Brew Part 1, Showtime 1970; Live In Montreux. Highlights 1973-1991, Eagle Rock; Miles Davis Live in Montreal, Pioneer 1985). Tra i libri sul grande trombettista, oltre alla citata autobiografia, ricordiamo Ian Carr, Miles Davis. The Definitive Biography, Harper Collins 2001; Ashley Kahn, Kind of Blue. The Making of the Miles Davis Masterpiece, Da Capo Press 2000, e Miles Davis. Dal be-bop all’hip-hop, Feltrinelli 2013, dell’autore di questo articolo.