Quando Stalin affamò il granaio d’Europa

Non tutti concordano nel qualificarlo come un genocidio. Ma, anche a volerlo considerare un crimine contro l’umanità, o un’espressione anticipata del Terrore di massa che sconvolse l’Unione Sovietica negli anni delle «grandi purghe», lo sterminio per fame (Holodomor) con cui Stalin pretese di cancellare l’Ucraina e il suo patrimonio identitario per farne un Paese russificato e interamente collettivizzato, è una pagina di orrore che somiglia all’olocausto degli ebrei.
La saggista e giornalista americana Anne Applebaum, nel suo volume La grande carestia. La guerra di Stalin all’Ucraina, affronta con rara maestria una tragedia a lungo occultata, e, perfino oggi, oggetto di negazionismo nella Russia putiniana che rappresenta il massimo possibile di continuità geopolitica con l’URSS.
Tutto ebbe inizio, nel 1929, con l’avvio della collettivizzazione forzata dell’agricoltura, che significò l’estirpazione violenta della classe dei kulaki, i contadini ricchi proprietari di appezzamenti di terra, di animali, di scorte alimentari e di sementi, di case e di attrezzi, i quali vennero espropriati e immessi nel sistema delle fattorie comuniste.
Fu un processo rivoluzionario che portò l’Ucraina, il granaio d’Europa, all’agonia: fra il 1931 e il 1934, dei 5 milioni di kulaki morti per fame in tutta l’Unione Sovietica, ben 3,9 milioni erano abitanti della repubblica con capitale Kiev.
Non tutti gli agricoltori considerati «benestanti» si rassegnarono senza opporre resistenza alla distruzione della loro vita. Fra il 1930 e il ’33, oltre due milioni di contadini vennero deportati in Siberia, in Asia Centrale e in altre regioni dell’ex impero zarista mentre, nello stesso arco di tempo, i gulag giunsero a contenere almeno centomila kulaki sradicati dalle loro terre e dal loro mondo culturale.
Stalin aggiunse al dramma della liquidazione della classe agricola «ricca» un supplemento di perversione. A fronte del fallimento del processo di collettivizzazione, che si manifestava con la contrazione del raccolto, il despota del Cremlino impose un giro di vite spietato all’Ucraina.
Praticamente, abbandonò alla denutrizione, all’inedia, alle malattie e alla morte, il popolo della nazione contadina, il quale, ai suoi occhi, era ancora infettato dal virus controrivoluzionario che, durante la guerra civile del 1918-21, aveva accarezzato propositi di secessione. Un’offensiva che si consumò con la feroce requisizione di tutte le scorte alimentari detenute dalle famiglie e con l’inasprimento dei controlli sull’ammasso dei raccolti. Le fattorie che non rispettavano le quantità di produzione pianificate, venivano inserite in liste nere che significavano il marchio d’infamia con la definiva condanna. Le sanzioni prevedevano, per le aziende collettive considerate inadempienti, il divieto di ricevere qualunque manufatto o prodotto industriale, la cancellazione delle linee di credito, la rinuncia a qualsiasi mezzo meccanico.
Le requisizioni di tutto ciò che poteva sfamare una famiglia, procedettero, attraverso squadre della morte, con intensità paranoiche.

Così l’autrice descrive questa discesa verso gli inferi: «Per sopravvivere la gente mangiava qualsiasi scarto o cibo andato a male che le brigate avevano trascurato. Mangiava cavalli, cani, gatti, topi, formiche, tartarughe. Cucinava rane e rospi. Mangiava scoiattoli. Cuoceva ricci sul fuoco, friggeva uova di uccelli. Mangiava la corteccia delle querce. Si nutriva di muschio e ghiande. Mangiava foglie e denti di leone. Uccideva corvi, piccioni e passeri».
Un rapporto della polizia segreta del marzo del 1933 registrò, come un dato di fatto, che il popolo s’avventava anche su gambi di mais, bucce di miglio, paglia secca, cocomeri e barbabietole marci. In condizioni estreme di questo genere, anche il cannibalismo fece la sua non episodica comparsa.
Neppure quando la carestia dilagò affamando milioni di persone che vagavano come spettri nelle campagne e nelle città, Stalin volle sentire ragioni. Tolse letteralmente di bocca anche all’ultimo ucraino il solo pezzo di pane che gli era rimasto e lo destinò all’esportazione.
Ma, quel che è ancora più terrificante, è che la volontà genocidaria del Cremlino procedeva per la cancellazione della specificità etnico-culturale. La repressione colpì la Chiesa ortodossa e la comunità israelitica, con la distruzione degli edifici di culto, ma anche tutti i presidi dell’identità ucraina, bollati come focolai di nazionalismo. Il Teatro dell’Opera di Kiev e l’Accademia delle scienze furono al centro di una sistematica azione denigratoria e di delegittimazione.
Intellettuali, professori, curatori di musei, scrittori, artisti, sacerdoti, teologi, funzionari e burocrati, finirono sotto il rullo compressore di Stalin e dei suoi zelanti collaboratori, come Molotov e Kaganovic, agenti specializzati del processo di sovietizzazione della Repubblica agricola.
L’intero Partito comunista ucraino, nel 1937-38, venne distrutto da una gigantesca purga: la maggior parte dei membri del Governo locale fu giustiziata, mentre già nel ’33, all’apice della spaventosa carestia, Mykola Skrypnyk, uno dei dirigenti più autorevoli del partito, si suicidò.
Scrive Applebaum: «Mychajlo Pavlenko, della pinacoteca di Kiev, fu arrestato nel 1934 e fucilato nel 1937, dopo tre anni di deportazione. Fedir Kozubovs’kyj, direttore dell’Istituto di storia della cultura materiale di Kiev, fu fucilato nel 1938. Pavlo Potoc’kyj, collezionista d’arte che aveva donato i suoi dipinti al Museo storico, fu arrestato all’età di ottantun anni. Morì per un attacco cardiaco alla Lubjanka, la famigerata prigione di Mosca».
Finì nel mirino degli aguzzini di Stalin anche il grande storico Mychajlo Hruševs’kyi. Nella primavera del 1931, venne arrestato dall’OGPU mentr’era in viaggio per Mosca e condotto in Ucraina. Concluse i suoi giorni, in circostanze da molti ritenute tuttora sospette, in una città di villeggiatura del Caucaso, nel 1934.