Classici

Quell’elogio del vino senza bizantinismi

La prima traduzione italiana della «Laus vini» greco-medievale di Michele Psello
Una mescita di vino nel medioevo.
Carlo Carena
13.12.2018 06:00

L’apprezzamento e le lodi del vino sono antiche quanto la sua scoperta. Narra la Genesi che quando Noè, agricoltore, dopo il diluvio incominciò a lavorare la terra, piantò la vite; e bevendo il suo frutto se ne deliziò a tal punto da ubriacarsi e giacendo nudo nella sua tenda fu oggetto di ludibrio da parte dei suoi stessi figli.

Agli albori dell’età classica grandi poeti lirici della Grecia, terra di vini eccellenti soprattutto sulle isole, disseminano le loro poesie di versi come questi di Alceo, secolo VI a.C.: “Beviamo! Perché aspettare le lucerne? | Tira giù, o ragazzo, le grandi coppe variopinte! Bacco donò agli uomini il vino, |che fa dimenticare gli affanni”. A sua volta il suo contemporaneo Anacreonte comunicava la sua pazza gioia così: “Quando bevo il vino, | problemi e preoccupazioni volano via. | Bacco mi rende ebbro e felice | nella stagione ricca di fiori”.

Fra i Romani è sufficiente il nome di Orazio. Le sue liriche sono disseminate del nome e delle lodi di Bacco, della sua squisitezza e dei suoi benefici. Ecco la sua esortazione all’amico Varo, nell’ode 18 del primo libro: “O Varo, non piantare nessun albero prima della sacra vite. Agli astemi il dio ha reso la vita più dura”. E all’amico Quinzio, che si preoccupa per le brutte notizie delle guerre e della politica, consiglia (ode 11 del secondo libro) di smettere, tutto passa, tempo, giovinezza, lune e soli: “Perché invece sdraiati sotto un alto platano | o sotto questo pino, leggeri e profumati | i bianchi capelli di rose, | non beviamo finché ci è concesso? | Bacco disperde i voraci affanni”, e così via. Egli ha un amico che filosofeggia, ma non per questo disdegna il liquore di Bacco ben invecchiato; anzi gradisce i suoi benefici effetti (ode 21 del libro terzo): “Tu, o Bacco, soavemente pungoli l’ingegno | torpido, tu riconduci la speranza agli animi ansiosi, dài forza e ardire al povero, che dopo aver bevuto più non trema!”

Non è dunque da stupirsi che in età bizantina ci sia stato qualcuno che scrisse dichiaratamente un Encomio del vino. D’altra parte in quel tempo di letterati e di retori ci fu chi andò a inventarsi e a scrivere elogi del pappagallo, del topo, della mosca, delle cipolle e delle rape, della calvizie, del vomito e persino della morte.

Autore di un Encomio del vino fu a Bisanzio, intorno all’anno 1050, Michele Psello, personalità di spicco nella politica del suo tempo e di vasta e varia produzione letteraria e scientifica.

Del vino egli fa anzitutto la difesa, chiarendo che se si cade nell’ubriachezza, ciò non è da attribuire agli effetti della bevanda ma all’intemperanza del bevitore: anzi, il vino è quanto di meglio fu inventato dagli uomini per il loro sostentamento. Perciò Dioniso era venerato fra i Greci, e fra noi Noè, celebrato per questa pianta benefica quanto Adamo per una pianta malefica. Non c’è momento della vita a cui il vino non si addica e non giovi: a chi è di buon umore intensifica l’allegria, a chi è sano conserva la salute, per il malato è una terapia e per il depresso un conforto. Nella Bibbia – parola divina – l’Ecclesiaste ordina di dare vino ai tristi; altrettanto, nell’Alcesti di Euripide, Eracle, esperto di pene e di sofferenze, consiglia agli amici addolorati di bere, poiché l’alzarsi e l’abbassarsi del calice li caverà dalla tristezza.

In pace esso è un aiuto, in guerra un alleato: senza il vino cosa sarebbero le feste nuziali e i banchetti? Esso eccita le membra e rallegra il cuore, suscita il canto e commuove.

In guerra poi è un formidabile sostegno, ed Ettore fu punito miseramente per non aver dato retta alla madre, che gli raccomandava di bere prima di scendere in campo. Perciò quando affrontò Aiace (Iliade, canto 7), mentre l’eroe greco lo guardava con sguardo truce e irridente, lui fu colpito, ferito, e cadde a terra: “Cosa che forse ad altri, anche bevendo, non sarebbe capitata”.

Ma che più? Platone, non può fare a meno di accennare al vino nel suo Convito, ma anche in un altro dialogo metafisico e cosmico, il Timeo, asserisce che nessun regalo simile a questo giunse mai né mai giungerà agli uomini da parte di dio all’uomo.

L’Encomio del vino di Psello è presentato ora a noi da Lucio Coco, studioso ed esploratore di aree letterarie antiche appartate e oscure, in un grazioso volumetto dell’Editore Olschki, coerentemente dotato di copertina violetta e di una cornice di grappoli e pampini.

Figuriamoci anche il séguito, quando si appropriano del tema scrittori eccentrici e goderecci come Rabelais; ma persino poeti cupi come Baudelaire additano il vino come benefico e confortatore, anzi amico fraterno dell’uomo.

Se poi si passa nella letteratura italiana, ecco servito il poemetto del Bacco in Toscana del poeta e scienziato seicentesco Franceso Redi. Vi si immagina che Bacco prenda domicilio in Toscana; e lì sui colli ameni e viniferi srotola un giocondo catalogo dei migliori vini europei e una stroncatura della birra nordica, che fa morire presto e impedisce di giungere all’età della bella barba bianca.

Ancora ai tempi nostri il liquore degli dèi ispirò pagine novellistiche bellissime in romanzi e narrazioni di Mario Soldati, un vero “classico che val la pena di rileggere”, come scrive Giovanni Tesio nella Presentazione della raccolta di suoi racconti sotto il titolo di Un sorso di Gattinara; volume ripreso in questi giorni dalle edizioni Interlinea. Viaggiatore curioso di gastronomie, qui Soldati si sofferma una sera a Gattinara, un paesello sulla Sesia fra le colline del Novarese. Nel vuoto dell’ora notturna lo scrittore si inoltra nel paese con le vie vuote e silenziose, senza trovare altro luogo accogliente se non sotto i portici illuminati un vecchio caffè-pasticceria stile liberty. Anche il suo interno è deserto, ma alla fine spunta il padrone e lo scrittore riesce a farsi dare alcune bottiglie prodotte da lui stesso. Ne chiede notizie, e il vecchio senza rispondere a parole capovolge una bottiglia e gliela mostra controluce: tutto lì, se ce ne intendiamo, dobbiamo capire al solo sguardo; e così poi a casa: basta “un sorso a fior di labbro, isolarsi, concentrarsi, restare immobili, lasciare che il sapore salga al cervello”. Anche amaro, ma l’amaro di un vino è gradevolissimo, e dentro un colore rosso marroncino tendente al giallo, un rosa scuro, dorato, antico, luminoso della luminosità notturna dei portici di Gattinara. Vederlo, sentirlo, richiama al pensiero la sua terra riscaldata da un bel sole, con lo sfondo del Monte Rosa bianco di neve: “Un sorso di Gattinara. Non chiedo di più”. Il lettore è avvertito.