Il ricordo

Quello stretto legame tra Primo Levi e la Svizzera

Nel centenario della nascita dello scrittore di «Se questo è un uomo» ripercorriamo i rapporti da lui intrattenuti con il nostro Paese
Adam Smulevich
30.07.2019 20:52

Svizzero fu il suo ultimo datore di lavoro prima dell’esperienza partigiana, l’arresto e la deportazione ad Auschwitz. Ed in Svizzera arrivarono gli sci che aveva portato con sé in alta quota, anche se ai piedi di un altro giovane che se ne servì per sfuggire alle grinfie di Salò e attraversare la frontiera. In Svizzera ci verrà poi da uomo libero, a poco più di un anno dall’uscita dal suo testo totale, Il sistema periodico e pochi mesi dopo il pensionamento dalla Siva, in quella che fu la sua prima tournée all’estero. Nel centenario dalla nascita (che cade proprio quest’oggi, 31 luglio), con un proliferare di iniziative che hanno nella sua Torino il naturale baricentro, il segno di Primo Levi resta più che mai attuale. E sono numerosi, a una attenta analisi, gli elementi che lo mettono in connessione con il territorio elvetico. Spunti preziosi da cui attingere soffermarci su quello che Alberto Cavaglion – membro del Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Centenario istituito in primavera a Roma e curatore per il Centro Primo Levi dell’edizione commentata di Se questo è un uomo – considera non soltanto uno dei maggiori iestimoni della Shoah, ma anche e soprattutto un grande scrittore del Novecento. «Il pericolo, quando si approccia Levi, è sempre quello dell’icona unidimensionale. La sua è invece una vicenda complessa, segnata da un percorso, anche di scrittore, che varia nel tempo: dall’ottimismo speranzoso del debutto al pessimismo degli ultimi anni. Quarant’anni di produzione letteraria che – afferma Cavaglion – sono una miniera di spunti in molteplici direzioni». Guai quindi farne un feticcio e l’oggetto di una celebrazione retorica. Quella di Primo Levi sono al contrario pagine vive di letteratura «da cui è fondamentale attingere, soprattutto in un momento in cui lo scenario, anche sul piano politico, sembra svelarci il fallimento di un certo tipo di Memoria rituale». Il perno di molte sue riflessioni è naturalmente Auschwitz. Ma l’invito di Cavaglion è comunque ad affrontare i testi che parlano del lager solo al termine di un percorso che parte appunto da Il sistema periodico, per proseguire con i saggi giornalistici e soltanto in conclusione toccare la realtà concentrazionaria.

Un improvviso e prezioso aiuto
È anche in quest’ottica che torna in gioco la Svizzera. Momento chiave della vita di Levi pre-lager è infatti la ricerca di un nuovo lavoro cui è costretto nel giugno del 1942. È l’Italia delle leggi razziali, degli ebrei italiani messi ai margini ormai da quasi quattro anni. In mezzo a tante difficoltà e a copiosa indifferenza una mano improvvisamente si tende. Ed è svizzera. È lo stesso Levi a raccontarlo, proprio ne Il sistema periodico, nel capitolo intitolato Fosforo: «Stavo inutilmente cercando, quando un mattino, cosa rarissima, fui chiamato al telefono dalle Cave: dall’altro capo del filo una voce milanese, che mi parve rozza ed energica, e che diceva di appartenere ad un Dottor Martini, mi convocava per la domenica seguente all’Hotel Suisse di Torino, senza concedermi il lusso di alcun particolare. Però aveva proprio detto Hotel Suisse, e non Albergo Svizzera come avrebbe dovuto fare un cittadino ligio: a quel tempo, che era quello di Starace, a simili piccolezze si stava molto attenti, e gli orecchi erano esercitati a cogliere simili sfumature». La situazione economicamente migliore che trova alla fabbrica di medicinali Wander concede a Levi una relativa stabilità rispetto alla precedente sistemazione. E la nuova vita a Milano, segnata dalla frequentazione di altri ebrei antifascisti, uno scatto ulteriore di consapevolezza. Dopo l’otto settembre la sua scelta è inevitabile: la montagna. È lì, nei pressi di Amay, in Valle d’Aosta, che all’alba del 13 dicembre viene arrestato: l’inizio del suo viaggio verso l’abisso.

Gli sci e il falegname
Si salva invece da spiacevoli conseguenze un falegname del posto: Yves Francisco. Non ha nessuna voglia di vestire la camicia nera dei repubblichini. Ma per farlo ha bisogno di un aiuto. E indirettamente Levi, cui la sua famiglia ha dato ospitalità in quei giorni drammatici, glielo offre. «Quando Primo Levi si era rifugiato qui aveva portato con sé anche l’attrezzatura di montagna. Aveva un bel paio di sci, che quando ci hanno arrestato sono rimasti da mia zia» , spiega nel documentario Gli sci di Primo Levi realizzato da Bruna Bertani per Rai 5. La sfida è aggirare il serrato controllo nazifascista, in particolare nell’area della funivia che sale da Cervinia al Plateau Rosa. Sentieri alternativi vanno battuti. E il mezzo più efficace con cui farlo sono proprio quelli sci, che lo portano a destinazione.

L’amore per la montagna
Montagna, memoria di ferite laceranti ma anche passione destinata a non estinguersi nel tempo. Emozionante ad esempio il percorso tracciato in Album Primo Levi (Einaudi) da Roberta Mori e Domenico Scarpa. Una vera e propria biografia per immagini, con numerosi inediti che ci portano anche sulle vette alpine più suggestive. «Per tutta la vita – spiegano i curatori – la montagna è stata per Levi il luogo delle amicizie e delle libertà. Per tutta la vita è stata il teatro del confronto fisico con gli elementi del sistema periodico, un’occasione per affrontare la materia, o meglio la sostanza elementare primigenia». È al ricordo della montagna, conferma Scarpa, che Levi «si aggrappa nei momenti più neri, anche nel lager». Ma non solo di montagna, del richiamo esercitato da neve, natura e materia, ma anche per usare un’espressione di Scarpa, della montagna «come palestra fisica e morale», parlò Levi nelle sue conferenze oltreconfine. Esperienze di uno scrittore: questo il titolo del ciclo di incontri che lo porta in Svizzera dall’8 al 12 novembre 1976, organizzato dalla Società Dante Alighieri e dall’Associazione svizzera per i rapporti culturali ed economici con l’Italia. Zurigo, San Gallo, Aarau, Berna e Coira: tappe che lasciano il segno in Primo, che recapita a Tuttolibri un elenco dattiloscritto delle domande che il pubblico gli aveva rivolto, aggiungendo (su richiesta) una traccia sommaria delle risposte che aveva dato ai principali quesiti. Ne fanno menzione Gabriella Poli e Giorgio Calcagno in Echi di una voce perduta: incontri, interviste e conversazioni con Primo Levi (Mursia) oltre che Marco Belpoliti nelle Opere Complete curate per Einaudi. Intenzione della Poli era di farne un libro, intitolato Dialogo elvetico. Purtroppo non se ne fece niente. Di quei dialoghi resta così soltanto qualche suggestione. Come quando ad uno spettatore di Berna che manifestava apprezzamento per la limpidezza della prosa e gli chiedeva se scrivesse con facilità, Levi rispose: «Voglio che il lettore, chiunque sia, capisca quel che dico». Parole che sono il manifesto di un’esperienza intellettuale straordinaria, al servizio di tutti e più che mai attuale.