Letteratura

Ray Bradbury, il visionario

A un secolo dalla nascita ricordiamo il grande scrittore americano, maestro della fantascienza, che con il suo inconfondibile stile poetico, immaginifico e struggente continua a stregare milioni di lettori in tutto il mondoI suoi capolavori, da «Cronache marziane» a «Fahrenheit 451», hanno cambiato il nostro modo di concepire il futuro
Ray Bradbury (1920-2012)
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
22.08.2020 06:00

La definizione più bella la diede, qualche anno fa, il compianto Giuseppe Lippi indimenticato cultore di questi argomenti, ricordando che Ray Bradbury, di cui si celebra oggi il centenario della nascita, diceva che «chi è appassionato di fantascienza nutre un sentimento diverso da tutti gli altri: la nostalgia del futuro». Ed è proprio in questo apparente paradosso che si nasconde il segreto di questo gigante della letteratura (non solo fantascientifica, per carità) del Novecento. Raymond Douglas Bradbury (Waukegan, Illinois, 22 agosto 1920-Los Angeles, California, 5 giugno 2012) con settant’anni continuativi di scrittura, più di quattrocento racconti e oltre cinquanta libri, è stato non solo uno degli scrittori più prolifici e tradotti del Novecento (aveva all’attivo opere di fiction, sceneggiature televisive e cinematografiche, opere teatrali, saggi, poesia), ma anche uno dei più influenti, capace di indirizzare con la sua letteratura non solo l’intero universo fantascientifico, ma quello della scienza, della tecnologia e della ricerca. Una figura che ha cambiato l’immaginario collettivo occidentale insomma. «Senza Ray Bradbury non ci sarebbe stato Stephen King», ha dichiarato King stesso; «Posso immaginare tutti i mondi possibili, ma non posso immaginare un mondo senza Ray Bradbury», ha detto Neil Gaiman, per citare solo due degli scrittori che si sono nutriti della sua visione. Ma accanto a loro ci sono intere generazioni di lettori che, leggendo le sue pagine, si sono spinti oltre i confini del conosciuto per immaginare quello che ancora non lo era.

Il «sense of wonder»

Nel nome e nello stile di una incomparabile fantascienza umanistica senza esperimenti astrusi, macchine impossibili o utopie tecnologiche ma regalandoci la quintessenza di quello che una volta (e quanto ci manca) si chiamava sense of wonder, il gusto del meraviglioso. Figlio di un elettricista di origini inglesi e di una casalinga svedese (si veda il suo stupendo romanzo autobiografico L’estate incantata) quel gusto dell’immaginifico il piccolo Ray lo aveva scoperto divorando le pagine delle Weird Tales durante la sua infanzia nella profonda America rurale. La scoperta della fantascienza però arriva più tardi in California dove la famiglia aveva dovuto trasferirsi per sfuggire alla Grande depressione e giovanissimo comincia, per sbarcare il lunario, a scrivere racconti per varie riviste di settore all’epoca molto in voga. Dopo il liceo, non potendo permettersi il college, Bradbury diventa un assiduo frequentatore di biblioteche e un lettore accanito. Vendendo giornali agli angoli della strada incontra Henry Kuttner suo primo idolo e mentore letterario e di lì a poco la scrittrice Leigh Brackett raffinata autrice di saghe spaziali e di brillanti sceneggiature hollywoodiane che, intuendone il talento, lo introduce in un mondo nuovo. Storie di fantasmi, di vampiri, polizieschi mozzafiato e tanta voglia di futuro, Bradbury scrive centinaia di meravigliosi racconti e, poco a poco, da lettore di Weird Tales ne diventa uno degli autori di punta. Già nel 1947 la casa editrice Arkham House fondata per diffondere le opere di Lovecraft e degli altri maestri degli anni Trenta decide di rilanciarsi pubblicando una raccolta tutta bradburiana dal titolo Dark Carnival, la giostra della paura. Intanto su riviste di livello e indubbia qualità come Planet Stories e Startling Stories Ray pubblica i suoi racconti di ambientazione marziana che sfociano nel 1950 nell’imprescindibile antologia The Martian Chronicles che gli dà immediatamente fama e successo internazionale (in italiano escono nel 1954 per Mondadori) resoconto della conquista e della colonizzazione di Marte da parte dei terrestri. Già nel 1951 abbozza come romanzo breve (The Fireman) quello che diventerà per mille ragioni il suo capolavoro assoluto; quel Fahrenheit 451 (prima uscita in italiano nel 1956) che Truffaut nel 1966 portò per primo sul grande schermo con un’opera inquietante e miliare nella storia del cinema (a colori, con Julie Christie e Oskar Werner ricordate?) e, ci sia concesso, del pensiero occidentale. Un romanzo persino più attuale oggi di quando fu scritto (che come abbiamo già ripetuto tante volte di questi tempi andrebbe mandato a memoria nelle scuole) che racconta di un apocalittico mondo del tutto simile al nostro in cui leggere è un’attività fuorilegge, i volumi cartacei vengono bruciati da apposite squadre di pompieri «al contrario» e i possessori di libri sono considerati come pazzi criminali e perseguitati come eversori di un regime dittatoriale dove devono regnare incontrastati le immagini e la televisione. Da mettere i brividi.

Padre nobile

Da qui in avanti Ray Bradbury diventa una vera celebrità internazionale, un punto di riferimento, quasi una sorta di guru per una certa schiera di intellettuali e di lettori affamati di meraviglioso. Il maestro indiscusso della moderna letteratura fantastica (a Bradbury non piaceva essere riduttivamente etichettato come scrittore di fantascienza) si trasforma in mostro sacro per quasi mezzo secolo. E dove Asimov è stato asciutto e lineare lui sa essere visionario e immaginifico. Così grande successo lo ottiene anche a Hollywood come sceneggiatore dove la sua carriera comincia con il Moby Dick di John Huston (quello con Gregory Peck nei panni di Achab per intenderci) e con alcune stupende puntate della mitica serie Ai confini della realtà. Alla narrativa affianca pure un’intensa attività poetica in cui spiccano The complete Poems of Ray Bradbury (Ballantine, 1982) e I live by the Invisible (Salmon Publishing, 2002) che gli procura numerosi premi letterari, accanto a un Pulitzer speciale e a un Emmy Award nonché ulteriore notorietà. Pubblicista instancabile, si impegna in mille cause per la salvaguardia della cultura e si lega a molti grandi del Novecento come ad esempio Fellini che per lui stravede. Nemmeno l’ictus che lo colpisce nel 1999 e la morte dell’amata moglie Marguerite nel 2003 riescono a frenarne lo slancio narrativo. Con l’aiuto della figlia continua a scrivere e si impegna in prima persona per salvare il sistema delle biblioteche pubbliche nella contea californiana dove si è ritirato, non mancando di litigare in pubblico duramente con il regista Michael Moore che usurpa il suo titolo/icona per il film contro George W. Bush dopo l’11 settembre. Ultranovantenne nel 2011 solo pochi mesi prima di andarsene consente che un suo libro (dopo aver sempre vituperato e rifiutato ogni contatto con internet, kindle, cellulari, iPad e compagnia bella) un solo titolo, venga pubblicato anche in formato digitale, aggiungendo «sia ben chiaro che io preferisco la carta». Provate a indovinare di che libro si tratta.