L’intervista

Romeo Castellucci: «Esploro il cuore di tenebra della democrazia»

Il regista italiano presenta al LAC il suo spettacolo «Democracy in America» da Tocqueville
Un momento di «Democracy in America».
Laura Di Corcia
20.02.2019 06:00

In Democracy in America Alexis de Tocqueville sviluppò un’approfondita analisi sul tema della democrazia così come essa si era strutturata oltreoceano, in condizioni diverse da quelle europee. Un materiale su cui Romeo Castellucci ha lungamente lavorato, realizzando un onirico e visionario spettacolo che potremovedere nel prossimo weekend (sabato alle 20.30 e domenica alle 16) al LACnell’ambito delle proposte di LuganoInScena. Per l’occasione abbiamo raggunto il regista.

Romeo Castellucci è stato ospite lo scorso anno del LAC. (Foto Reguzzi)
Romeo Castellucci è stato ospite lo scorso anno del LAC. (Foto Reguzzi)

Perché ha deciso di tornare oggi al testo di Alexis de Tocqueville, profondamente pessimista circa le possibilità della democrazia?

«Lo spettacolo più che altro trae ispirazione dal libro di Tocqueville: naturalmente la sua matrice è politica, ma è una matrice sepolta, criptica. Alla base del testo e anche dello spettacolo c’è in realtà un dramma che nasce dalla condizione in cui si trovavano i primi coloni in America. Per rispondere alla sua domanda la cosa che mi ha sempre colpito di questo libro è l’indagine su questa parola, “democrazia”, che viene messa su un banco di prova. In America la democrazia nasce in un contesto profondamente diverso da quello europeo, e al di fuori della violenza. La cosa che colpì Tocqueville è il cuore di tenebra di questa parola, che si rivela in tutte le sue contraddizioni oltreoceano: basti pensare alle condizioni del popolo nero, che aveva appena acquisito il diritto di voto anche se nessuno dei neri aveva mai potuto votare se non a rischio della propria pelle. La democrazia nasce in America in una sorta di deserto, dal nulla: questo lo impressionò, insieme all’impianto puritano che la fece germogliare. Tutto il contrario di quanto avvenne in Europa, dove la democrazia nacque affrancandosi dalla religione. Ma tutto questo per me è una scusa: io non ho scritto un saggio politico, perché il teatro non ha a che fare con l’indagine, è piuttosto il luogo delle sensazioni e delle emozioni, anche profonde, anche sconosciute. Ho colto questo impianto politico e religioso per parlare dell’enigma della condizione umana. I protagonisti sono due contadini puritani e nel loro dialogo si scorge in nuce il nuovo contratto sociale, la nuova idea di comunità che gli americani stanno inaugurando, dove la terra promessa è la Nuova Israele. A un certo punto però la moglie entra in crisi, non crede più in questo sogno».

In fondo la parabola di questo spettacolo prende il via dalla parola disgregata e termina nella bestemmia, che è una nuova forma di disgregazione. Mi viene da pensare che questo spettacolo, ma in generale il suo lavoro, mostri una sfiducia nei confronti del Logos.

«È un’osservazione pertinente. Il Logos, il linguaggio inteso come casa comune, è tutto ciò che abbiamo ma anche tutto ciò che ci divide. In Democracy in America Tocqueville mostra chiaramente che il linguaggio viene usato come un’arma, è il vero potere. C’è tutto un capitolo dolorosissimo e straordinario dedicato ai nativi, che vengono sterminati soprattutto attraverso il linguaggio e non solo con i fucili, costretti per esempio a firmare documenti che non capivano, perché non conoscevano la lingua. Il linguaggio è quindi il campo di battaglia definitivo per il teatro di sempre, non solo per quello di Romeo Castellucci».

La cosa che mi ha sempre colpito di questo libro è l’indagine su questa parola, «democrazia», che viene messa su un banco di prova.

Perché a un certo punto arriva la danza?

«La danza è comunitaria, è un ballo collettivo. Si danza intorno a qualcosa, che potrebbe essere un vuoto, ma un vuoto che serve a tenere insieme. Nel corpo centrale dello spettacolo Elizabeth, la protagonista, ha questa crisi e comincia a parlare in una lingua lacerata, che le permette di trovare un contatto con se stessa e con la natura, così pura e così avara di frutti con loro. Tocqueville era molto colpito dalle condizioni di vita dei puritani: moltissimi di loro morivano di fame. Coltivavano la terra solo per fede. Questo aspetto drammatico ha colpito anche me. Quando Elizabeth si libera e inizia a parlare in questa lingua strana, partono le danze, che sono sempre velate, confuse in una nebbia che rappresenta un tempo che forse non c’è mai stato, un tempo mitologico in cui la comunità umana può danzare intorno a qualcosa. La danza allude a una festa; là dove c’è la festa, non c’è politica. È un’immagine polemica con la politica».

Nell’intervista concessami lo scorso anno per questo stesso giornale, mi disse infatti che questo è uno spettacolo polemico con la politica.

«In questo senso, sì. Naturalmente abbiamo bisogno della politica, è uno strumento fondamentale per la società umana, laddove sia minimamente intelligente e sensibile. Ma qui stiamo parlando in termini antropologici, non tanto calati nella cronaca. Questo titolo sembra fatto apposta, me ne rendo conto, per rispondere all’attualità, ma c’entra poco con essa. Quello di Tocqueville è un libro che conoscevo da molto tempo e al quale sono ritornato addirittura prima dell’elezione di Trump (non mi interessava, davvero). Democracy in America, ripeto, mette alla prova la democrazia. E la prova non è totalmente positiva. Sappiamo che i filosofi greci, Platone in primis, erano molto polemici con la democrazia. Ora è l’unica forma di governo che abbiamo, ma val la pena interrogarsi su questa parola».

Naturalmente abbiamo bisogno della politica, è uno strumento fondamentale per la società umana, laddove sia minimamente intelligente e sensibile.

La tragedia, così come la politica, nascono quando termina la festa?

«È esattamente così. Finisce il culto e nasce il teatro, quindi l’attore prende il posto di un capro, comincia a parlare. Il teatro rappresenta la crisi del sacrificio e nasce quando gli dei muoiono. E funziona in senso psichico. Non è il commento intelligente che analizza questa società. Non ho la stoffa per fare questo e non lo voglio fare. Credo che il teatro funzioni a livello profondo e ci riguardi tutti. Elizabeth è una parte di noi. Bestemmia, ma è facile vedere come la bestemmia si trasformi in preghiera. L’ambivalenza, l’ambiguità è la luce che rischiara questo dramma, questo spettacolo onirico sul tema della storia. Anche se solo per un attimo, forse».