CorrierePiù

Russia, le profezie «luganesi» inascoltate di Yuri Afanasiev

Il grande storico russo nel 1993 tenne una notevole Lectio magistralis alla Facoltà di Teologia di Lugano
Moreno Bernasconi
02.04.2022 06:00

Una lezione «luganese» del grande storico russo Yuri Afanasiev torna di vivissima attualità a quasi trent’anni di distanza. L’illustre ospite della Facoltà di Teologia descrisse con lucidità i tratti più oscuri del potere di Boris Eltsin. Un imprinting politico rimasto bene impresso nel suo consigliere di allora, quel Vladimir Putin che facendo propri i principi antidemocratici del suo mentore, oggi ne perpetua le idee con la sanguinaria «operazione speciale» in Ucraina.

Al primo Dies academicus come Facoltà a tutti gli effetti – il 6 dicembre 1993 – l’Istituto accademico di teologia di Lugano invitò a tenere la Lectio magistralis uno dei membri più illustri dell’intelligentsia democratica russa, lo storico Yuri Afanasiev. Non era un caso. La facoltà di teologia di Lugano non era sorta tanto o soltanto con un intento regionale o nazionale (portare anche l’insegnamento della teologia in Ticino dopo l’emancipazione canonica della Diocesi ticinese da quella di Basilea nel 1971) bensì con una forte connotazione universale da un gruppo di professori universitari e intellettuali di formato europeo e internazionale che del continente avevano una visione culturale comune: quella che spinse Papa Wojtila a dichiarare co-patroni dell’Europa i monaci greco-bizantini Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei popoli slavi.

Yuri Afansiev al microfono durante un comizio tenuto a Mosca. © Wikipedia
Yuri Afansiev al microfono durante un comizio tenuto a Mosca. © Wikipedia

Quel sodalizio di studi era stato per decenni in stretto contatto con esponenti di spicco della dissidenza russa e di quella dei Paesi invasi dall’Armata rossa, che pativano sotto la ferula dell’URSS e che in Occidente non avevano trovato eco e sostegno presso larga parte delle classi intellettuali egemoni filocomuniste.

Il discorso che Afanasiev tenne sulla Russia dopo la caduta dell’URSS davanti al Professor Eugenio Corecco, vescovo di Lugano, al cardinale polacco Francisek Macharski (che del cardinal Wojtyla aveva preso il posto a Cracovia) e ai protagonisti del nuovo progetto universitario ticinese, fu a tinte fosche. Afanasiev citò le speranze tradite di Cadaaev che nell’Ottocento vedeva la Russia integrarsi un giorno armoniosamente nel continente europeo; e fece un’analisi sferzante dell’era Eltsin appena iniziata, che molti in Occidente andavano salutando come un’inevitabile e trionfale marcia verso la democrazia dopo la liberazione dal giogo comunista sovietico e dagli scherani del KGB che avevano il loro quartier generale nel sinistro Palazzo della Lubjanka.

Giova citare alcuni brani di quell’intervento di una dolorosa attualità. «La situazione interna russa è allarmante sia dal punto di vista delle istituzioni politiche sia da quello del potere reale. Il potere politico si presenta già e si presenterà sempre più, nei prossimi anni, come autoritario. Sebbene la nuova Costituzione preveda un potere esecutivo e uno legislativo, i poteri presidenziali sono e saranno tali da ridurre il Parlamento al ruolo di comparsa. La Corte costituzionale avrà le mani legate. A questo si affianca un potere reale del complesso industriale militare sul paese».

«La Russia – avvertiva Afanasiev, fortemente critico verso Boris Eltsin e la squadra dirigente di allora, di cui faceva parte come consigliere Vladimir Putin – è inoltre implicata nelle diverse guerre intestine in corso nei Paesi dell’Ex Unione sovietica. E in questa situazione esplosiva – ammoniva – il ricorso all’arma atomica non può essere escluso».

L’appello all’Occidente
Lo storico sottolineava inoltre una lacuna il cui peso rendeva una transizione democratica e l’avvicinamento all’Europa occidentale «né facile né rapido». «L’ostacolo principale consiste nell’assenza, prima e dopo la Rivoluzione d’Ottobre, di una società civile organizzata, vale a dire di qualsiasi struttura autonoma rispetto al potere assoluto dello Stato». Nella sua storia, la Russia ha vissuto una mancanza di libertà sotto la ferula degli Zar prima e sotto quella del comunismo sovietico poi. «Una secolare privazione di libertà che costituisce una pesante eredità per tutti coloro che si battono faticosamente per realizzare riforme politiche in Russia. Un circolo vizioso dove lo Stato è totalitario e i sudditi privi di ogni iniziativa».

Afanasiev lanciava un appello all’Occidente: «Bisogna che si renda conto di quel che sta accadendo oggi nel mio Paese». Era il 1993. Un anno prima, nel suo saggio Ma Russie fatale, pubblicato in Francia con una prefazione di André Glucksmann, lo storico russo puntava il dito contro un altro fenomeno che illustrava il corso degli eventi nella Russia post-sovietica: la nomenklatura dell’ex partito comunista e i dirigenti del KGB si erano appropriati delle ricchezze ed erano diventati i dirigenti della nuova economia «privata» del Paese.

Boris Eltsin è stato il primo presidente della Federazione russa. © Wikipedia
Boris Eltsin è stato il primo presidente della Federazione russa. © Wikipedia

La scalata di Putin
Nel 1993 Vladimir Putin, già ufficiale del KGB, era entrato in politica a San Pietroburgo e si preparava a diventare consigliere e capo dei servizi di sicurezza del Governo di Boris Eltsin che lo volle (lo impose) come suo successore nel 1999. Quanto democratici furono davvero i dieci anni di Presidenza di Eltsin della Russia post-sovietica? L’allarme di Afanasiev (che gli costò a suo tempo critiche in patria e anche in Occidente) era più che giustificato già agli inizi: il passaggio di potere da Eltsin a Putin si è fatto nella continuità. Malgrado alcune apparenze iniziali ed euforie fuori luogo di alcune cerchie in Occidente, il sistema autoritario ereditato dall’URSS (e le sue mire imperialiste) hanno trovato continuità in una figura politica molto più ferma e meno manipolabile dall’Occidente del beone Boris Eltsin: il gelido (e astemio) Vladimir Putin, che ha lavorato a lungo per la polizia segreta.

Un documento straordinario
Per approfondire l’affermazione centrale dello storico Yuri Afanasiev – ovvero le conseguenze nefaste dell’assenza di società civile come costante, dalla Russia zarista a quella sovietica e post-sovietica eltsiniana e putiniana – è utile riandare al Manifesto autocritico pubblicato all’indomani della rivoluzione russa fallita del 1905: Vechi, pubblicato da membri influenti dell’intelligentsia democratica russa (Bulgakov, Berdjaev, Struve, Franck, Kisjakovskij…) costretti poi a fuggire in Occidente, dove influenzarono il pensiero di Maritain e di Emmanuel Mounier.

Il manifesto è stato tradotto e pubblicato in italiano con bella lungimiranza nel 1970 dall’Editore Jaca Book e ristampato nel 1990 con una prefazione dell’ex ambasciatore italiano a Mosca Sergio Romano. Quel documento straordinario merita di essere riletto per intero se è vero che i barbari e inaspettati conflitti dei primi due decenni del Ventunesimo secolo ci obbligano a chinarci sulla mancata metabolizzazione della fine degli imperi ottocenteschi e del primo conflitto mondiale e conseguenti totalitarismi del Ventesimo secolo.

Ma uno in particolare di quei contributi risulta attualissimo e utile per capire la distanza astronomica fra la Russia e l’Europa occidentale: In difesa del diritto di Bogdan A. Kistiakowsky. Benché sia Pietro il Grande sia Lenin avessero la mente rivolta al mondo occidentale (e lo dimostrano le statue monumentali a loro dedicate a San Pietroburgo che indicano ambedue emblematicamente l’Ovest con il dito…) il sociologo russo denuncia il fatto che «l’intelligentsia russa non ha mai stimato il diritto, non ha mai visto in esso un valore; di tutti i valori culturali il diritto fu quello da lei più trascurato. In queste condizioni non poteva nascere nella nostra classe dirigente una coscienza giuridica» di cui invece risulta impregnata la civiltà occidentale.

«Dov’è il nostro Esprit des lois, il nostro Contrat social? L’importanza del diritto procede di pari passo nella storia con l’affermazione delle libertà personali» – ricorda Kistiakowsky – e a questa mancanza di senso giuridico è dovuta la scarsa attenzione della classe intellettuale russa per i diritti umani e civili: «Il fondamento di un solido ordinamento giuridico è costituito dalla libertà dell’individuo e dalla sua inviolabilità... L’ordine giuridico è il sistema di rapporti nei quali l’insieme delle persone di una data società possiedono la più grande libertà di azione e di autodecisione».

L'attuale presidente russo Vladimir Putin. © Keystone/Mikhail Klimentyev
L'attuale presidente russo Vladimir Putin. © Keystone/Mikhail Klimentyev

Strali agli Zar e ai socialisti
La critica non è rivolta solo all’epoca degli Zar, ma in modo veemente ai socialisti russi che verso il diritto manifestano dispregio o indifferenza: «La manifestazione di un sistema socialista è possibile solo quando tutte le sue istituzioni ricevono una formulazione giuridica perfettamente espressa», egli afferma. Deplorando il fatto che il teorico principale del partito socialista russo dell’epoca, G. V. Plechanov, al Congresso del 1903, «aveva fatto una predica sulla relatività di tutti i principi democratici, predica che equivale alla negazione di un forte e stabile ordine giuridico e dello Stato costituzionale. Costituzione, Parlamento e suffragio universale sono concetti relativi, da sostenersi o negarsi in funzione degli interessi rivoluzionari (salus revolutiae suprema lex). L’idea proclamata del dominio della forza e del potere conquistato tramite essa invece che attraverso i principi del diritto è addirittura mostruosa», concludeva Kistiakowsky.

Domande senza risposta
«La coscienza giuridica di ogni popolo – rileva ancora Kistiakowsky – si riflette nella sua capacità nel fondare organizzazioni e di elaborare per esse forme determinate. Le organizzazioni e le loro forme sono impossibili senza norme giuridiche che le regolino. Il popolo russo non è privo di talento organizzativo e aspira a forme organizzative incisive, come dimostrano le aspirazioni al sistema di comunità contadine e di mutuo soccorso (obscina e artel) sancite dal diritto consuetudinario russo. Ma perché la classe intellettuale non se ne è servita come substrato per uno sviluppo giuridico-istituzionale sistematico?».

Domande senza risposta dopo la vittoria armata dei Bolscevichi di Lenin e l’eliminazione fisica – sistematica e su larga scala – del ceto contadino dei kulaki da parte di Stalin. Questa e non altra è l’eredità che ha ricevuto l’attuale imperatore russo e comandante in capo dell’armata russa che ha invaso l’Ucraina.

Quattro protagonisti tra rottura e continuità

Yuri Afanasiev
Nasce il 5 settembre del 1934 nella provincia di Uljanovsk, che prende il nome dall’omonima città russa. Si laurea in Storia nel 1957 all’Università statale Lomonosov di Mosca. Dal 1954 al 1991 è membro del Partito comunista dell’Unione Sovietica e ha ricoperto cariche nelle organizzazioni giovanili dello stesso. Membro dell’Accademia russa delle Scienze, nel 1971 e 1976 insegna a due riprese all’Università parigina della Sorbona. Considerato come uno degli intellettuali più impegnati nella causa della perestroika (complesso di riforme politico-sociali ed economiche avviato negli anni Ottanta del Novecento dalla dirigenza dell’Unione Sovietica), nel 1989 viene eletto deputato per la città di Noginsk, nel distretto della capitale russa. Muore a Mosca il 14 settembre del 2015.

Giovanni Paolo II
Al secolo Karol Jozef Wojtyla e di nazionalità polacca, nasce a il 18 maggio del 1920 a Wadowice, città a una cinquantina di chilometri da Cracovia. Nel 1942, dopo aver lavorato come operaio in una cava di un’azienda produttrice di soda, entra nel seminario clandestino diretto da Adam Stefan Sapieha, arcivescovo di Cracovia che lo ordina presbitero il 1. novembre del 1946. Subito dopo si trasferisce a Roma per proseguire gli studi teologici alla Pontificia Università intitolata a San Tommaso d’Aquino. Nel 1967 è creato cardinale da Paolo VI, che tre anni prima l’ha nominato arcivescovo di Cracovia. Il 16 ottobre del 1978 viene eletto Papa e sceglie il nome di Giovanni Paolo II. Muore il 2 aprile del 2005, dopo di che viene proclamato beato nel 2011 e santo nel 2014.

Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla. © Keystone
Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla. © Keystone

Boris Eltisn
Nasce il 1. febbraio 1931 nel villaggio di Butka, a est degli Urali, e nel 1955 si diploma in ingegneria edile. Per cinque anni lavora come come ingegnere, dopo di che nel 1961 si iscrive al Partito comunista sovietico, di cui diventa funzionario a Sverdlovsk. Fa carriera in seno alle istituzioni e al partito, approda in parlamento nel 1989 e l’anno successivo diventa il primo presidente della Federazione russa. Viene rieletto nel 1996 ma si dimette nel 1999, anche perché le sue condizioni di salute sono precarie, indicando Vladimir Putin quale suo successore. Muore a Mosca il 23 aprile del 2007.

Vladimir Putin
L’attuale presidente russo nasce a San Pietroburgo (allora Leningrado) il 7 ottobre 1952 e nella città natale si laurea in Legge nel 1975. In seguito lavora fino al 1991 per il KGB, raggiungendo il grado di tenente colonnello. Si dimette nel 1991 per iniziare la carriera politica. Ricopre la carica di vicesindaco di San Pietroburgo, dopo di che nel 1996 si traferisce a Mosca ed entra nell’Amministrazione Eltsin, prestando anche servizio per alcuni mesi quale direttore dell’FSB, nuova denominazione del KGB. Nel 1999 viene scelto quale Primo ministro da Eltsin e dopo le dimissioni di quest’ultimo è eletto alla presidenza della Federazione russa, alternandosi prima con il delfino Dmitrij Medvedev e e mantenendo poi la carica ininterrottamente dal 2012.