L’intervista

Sabino Cassese: «La crisi della democrazia si supera con l’istruzione»

Il giurista e giudice emerito della Corte costituzionale italiana analizza l’attuale crisi delle istituzioni democratiche messe ulteriormente alla prova dall’emergenza coronavirus
Sabino Cassese (85 anni), è un giurista e accademico nonché giudice emerito della Corte costituzionale italiana. Negli anni Novanta è stato anche ministro per la Finzione pubblica nel Governo presieduto da Carlo Azelio Ciampi.
Francesco Mannoni
28.04.2020 06:00

Ripensare alla democrazia e ai suoi contenuti e valori in questo momento difficile, può sembrare inopportuno, invece è più che mai necessario discuterne. Circolano rischi di dittature? La COVID-19 può contagiare anche la democrazia? Ne abbiamo parlato con Sabino Cassese, giurista e giudice emerito della Corte costituzionale italiana, autore dei saggi La democrazia e i suoi limiti (ed. Mondadori) e La svolta. Dialoghi sulla politica che cambia (ed. Il Mulino).

Professore, che pericoli intravede per la democrazia in questo periodo di emergenza sanitaria ed economica che potrebbe diventare anche emergenza politica?
«Il primo è quello che si cominci a diffondere l’idea che occorra seguire l’esempio cinese. Il secondo che valga il modello ungherese. In ambedue i casi, non ci si rende conto dell’importanza della partecipazione della società civile. È più ordinata la risposta dei Paesi occidentali alle pur contraddittorie indicazioni governative, oppure quella cinese, assicurata mediante criteri costrittivi e comunque fondata su una società educata a criteri confuciani, che massimizzano i valori sociali rispetto a quelli individuali?»

La democrazia sembrava una conquista illimitata, invece ora scopriamo dei limiti: quali i più evidenti e dannosi?
«Sono due le specie di limiti, di ordine diverso. Alcuni sono i limiti che incontra la democrazia nel decidere. Ad esempio, il fatto che deve tener conto del pluralismo, deve tener conto delle correzioni epistocratiche (per esempio le Corti costituzionali, che possono annullare le leggi), deve rispettare la divisione dei poteri, e così via. Insomma, quella che chiamiamo democrazia è una costruzione composita dove l’investitura popolare incontra barriere non superabili. Non si può dire, semplicemente, sono stato eletto, lo vuole il popolo, perché vi sono controlli di varia natura. E questo perché anche il popolo si può sbagliare e le maggioranze possono trasformarsi in tirannie, come già Madison alla fine del 700 e Tocqueville all’inizio dell’800 hanno osservato. Poi vi sono gli inconvenienti. Ad esempio, la democrazia, facendo filtrare nei Parlamenti richieste collettive, richiede che gli interessi collettivi vadano protetti (ad esempio, quelli ambientali, quelli riguardanti i beni collettivi). Quindi, rallenta la macchina delle decisioni».

Il declino della democrazia che si registra in molti Paesi, da che cosa è motivato?
«Da cause diverse. In alcuni Paesi da un rallentamento dei processi di decisione, prodotto dal pluralismo e dalla democrazia stessa. In altri dall’affermarsi o dal rivivere di nazionalismo. In altri dalla tendenza alla verticalizzazione del potere. In altri ancora dal malfunzionamento dei contropoteri. Bisogna evitare che questi si sommino».

L’avvenire dei popoli è ancora e sempre nella democrazia o sarà soppiantata da qualcos’altro?
«Democrazia va di pari passo con pace e con progresso. Pace e progresso sono normalmente legati alla democrazia. Un Paese vicino democratico è quasi sicuramente un vicino pacifico. Lo sviluppo economico, di regola, si è accompagnato alla democrazia. L’economista Schumpeter ha addirittura offerto una spiegazione della democrazia in termini di concorrenza, come se quello politico fosse un mercato dove si debbono incontrare un’offerta e una domanda politica. Dunque, dobbiamo sperare che le democrazie si consolidino e che i Paesi che non sono democratici lo diventino».

Democrazia va di pari passo con pace e con progresso. Un Paese vicino democratico è quasi sicuramente un vicino pacifico

Nei Paesi dove la democrazia è nata, come l’Inghilterra e gli Stati Uniti, qual è la situazione?
«Lì si stanno verificando due fenomeni. Il primo riguarda la crisi dei partiti come organizzazioni sociali (pochi iscritti, scarsa democrazia interna, selezione negativa dei dirigenti). Il secondo, legato al primo, è la “perdita dei fini”: pensi soltanto a tutta la vicenda Brexit, nata da un “misunderstanding” (cioè dal fatto che il referendum è stato inteso come una richiesta di chiudere o aprire alla immigrazione) e protrattasi per tanto tempo (e non è finita). Negli USA, assistiamo a una eccessiva concentrazione di poteri, una tendenza che però era stata segnalata già dagli storici ai tempi di Kennedy (la presidenza imperiale) e che Trump sta portando alle estreme conseguenze».

Quale potrebbe essere la scossa per ridare alla democrazia in generale maggiore pervasività?
«L’unico modo è quello che risiede proprio nella democrazia: maggiore partecipazione dei cittadini a tutti i livelli e in tutti gli organi. Questo richiede maggiore istruzione, rispetto della conoscenza e della competenza, da cui, in ultima istanza, dipende la democrazia: per decidere bisogna innanzitutto conoscere».

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