Sándor Márai e la gelida brutalità del male

Gli scrittori veri hanno una dote innata: percepiscono in anticipo i sommovimenti sotterranei che cambiano la società e il corso della storia, nel bene e – più spesso – nel male. Sanno indagare in profondità le forze esterne e le debolezze interiori che inducono l’animo umano a farsene trascinare. Con la loro creatività esprimono ciò che sentono e vedono riversandolo sulla pagina bianca. Ci rendono partecipi delle loro intuizioni e percezioni, trasformate in capolavori dall’ispirazione e dalla maestria nell’uso della parola. Le loro opere sono formidabili e ineguagliabili strumenti di conoscenza della realtà esistenziale dell’individuo inserito nel consorzio degli uomini e nel succedersi degli eventi collettivi; chiavi di lettura che, per dirla con Montale, sanno metterci nel mezzo di una qualche verità.
Scrittore autentico – e che scrittore – è senza dubbio Sándor Márai, uno dei più incredibili casi letterari del Novecento. L’autore de Le braci ha scandagliato magistralmente gli abissi in cui sa affondare l’homo sapiens quando è soggiogato dall’irrazionalità dell’istinto e delle passioni o incapace di resistere e di sottrarsi ai diktat di ciò che amiamo definire destino. Nell’anno in cui ricorre il trentesimo anniversario della scomparsa (Márai morì suicida a San Diego, sparandosi un colpo di pistola, il 22 febbraio 1989, dopo aver perso nel 1986 la moglie e l’anno successivo il figlio adottivo), l’editore Adelphi, nella collana “Piccola Biblioteca”, ha pubblicato per la prima volta in lingua italiana Il macellaio (A mészáros), romanzo corto - o racconto lungo - che nel 1924 segnò l’esordio narrativo dello scrittore nato l’11 aprile 1900 a Kassa, nell’allora impero austro-ungarico (oggi la slovacca Kosice). In poco meno di cento pagine, narrando la vicenda del macellaio Otto Schwarz, Márai condensa il passaggio dall’Europa ottocentesca degli imperi, con le sue regole e tradizioni e con i suoi rituali e punti di riferimento, a quella novecentesca delle spaventose e bestiali tempeste che hanno sconvolto l’intero continente, oscurandolo, rabbuiandolo. Il cognome stesso del protagonista è un triste e inquietante presagio. Nomen omen. E il suo è un mestiere con una carica simbolica a prima vista scontata, ma a conti fatti, cioè nello scorrere della impattante narrazione, assolutamente dirompente.
Si badi bene all’anno in cui Il macellaio è stato scritto: 1924. Gli orrori e le distruzioni della Grande guerra erano ancora vivi nelle menti e nei cuori feriti degli europei, la barbarie nazionalsocialista era invece di là da venire. Ma nelle straordinarie pagine di questo capolavoro giovanile ci sono tutti i più repellenti ingredienti sociali, esistenziali e psichici che hanno condotto l’umanità non solo alla prima tragedia, bensì anche da un incendio all’altro, spegnendo la luce della ragione e del rispetto e dando fuoco alle polveri dell’odio, della violenza, della sopraffazione. La banale esistenza del macellaio Otto Schwarz ci fa capire perché è potuto succedere quel che, quando Márai scriveva, non era ancora successo ma che poi è per davvero accaduto.
Il romanzo è marcato da alcuni snodi che girano il corso della vita del protagonista. Tutti sono momenti di indicibile, incomprensibile e concentrata violenza. Circostanze ed eventi particolari, inattesi, che irrompono nella narrazione, scuotono, scioccano, turbano il lettore. Il sangue vi scorre copioso. La violenza lascia il segno e contrasta con la normalità con cui Otto Schwarz si rende protagonista, quasi sublimandoli, di quei momenti. La banalità del male, che Hannah Arendt ci ha così magistralmente descritto facendoci capire come Auschwitz sia stato possibile, qui diventa la brutalità del male, che invade e conquista un essere umano apparentemente comune. Márai la descrive con gelido distacco, come fosse un cronista diligentemente oggettivo, e questo rende ancor più sconvolgente la storia con i suoi incomprensibili sussulti.
Il primo snodo violento è la nascita del protagonista. Il padre Johannes, protestante, è un sellaio di una cittadina del Brandeburgo, non lontana da Berlino, sposato da vent’anni, senza prole. Un giorno, con la sua “sterile e sempre mesta consorte”, assiste ad uno spettacolo circense. Una giovane domatrice, miss Bellini, azzarda un numero con un gruppo di orsi polari. Il gran finale prevede un combattimento corpo a corpo con una delle belve. Nell’atmosfera, “carica di inquietanti presagi, della serata” succede che la domatrice metta la testa tra le fauci di Tomy, l’orso femmina. Che non segue il copione e chiude le fauci: “La cosa non produsse alcun suono, e nessuno ebbe modo di avvedersi dell’orrore da alcun altro segno se non che le braccia della donna scivolarono inerti dalle spalle dell’animale e le ginocchia si piegarono”. Gli inservienti sparano all’animale, ma è troppo tardi. “L’orsa giaceva a terra, contorcendosi negli spasimi della morte e stringendo ancora il corpo fra i denti. Tutto intorno la segatura era ormai tinta di rosso”. Mentre nel pubblico è un fuggi fuggi, la moglie di Johannes Schwarz resta seduta accanto al marito, svenuta dall’emozione. “Quella notte fu concepito Otto. Nacque di dieci mesi e con i denti. Il parto costò la vita alla madre, e il misero posto di quella donna silenziosa e gracile fu occupato da una balia (...), una specie di grottesco e ipertrofico coacervo di carne e ossa”.
Sembra un destino segnato quello del protagonista. Ma sul destino Sándor Márai scriverà poi cose memorabili, lasciando spazio anche al peso di tutto ciò che risulta difficile incasellare come tale in rapporto alle vicende terrene degli individui. Quanto pesi il destino, quanto la nostra responsabilità di persone dotate d’intelletto e volontà, insomma il libero arbitrio, è questione che secoli di filosofia non hanno risolto. Comunque, il futuro macellaio “da piccolo, quando aveva nove o dieci anni, assistette a un episodio che ebbe ripercussioni decisive sulla sua intera esistenza”: l’uccisione e la macellazione di una mucca recalcitrante. “L’istante in cui vide balenare la scure e subito dopo l’animale stramazzare a terra, senza emettere alcun suono e senza dibattersi, si impresse in lui come il ricordo di una sorta di gioia trionfale. Provò una torbida soddisfazione perché erano riusciti ad ammazzare la mucca, il che era fuor di dubbio, ma il fatto in sé, l’evento dell’uccisione, gli apparve come qualcosa di assolutamente positivo”. Lasciamo al lettore imbattersi negli altri snodi narrativi de Il macellaio, con i loro grumi di violenza che inspiegabilmente sale o è condivisa dall’animo del protagonista.
Otto Schwarz ha preso parte alla Prima guerra mondiale. Con la baionetta ha dato un senso alla sua esistenza, coltivando una primitiva visione del mondo fondata sulla propensione alla brutalità. “Siamo tutti macellai, e bisogna aprire la pancia alle bestie con il coltello” pensa nell’attimo in cui, in piena azione bellica, “la sua vita acquistò un senso”. “Aprire la pancia alle bestie, pensò entusiasta, bisogna aprire la pancia a tutti quanti per... e qui si interruppe un istante... per la patria. Poco dopo si corresse: per la patria e per l’imperatore”. L’eco delle sue gesta giungono in alto, molto in alto. Otto Schwarz viene premiato proprio dall’imperatore in persona. In quella breve cerimonia per la consegna della medaglia al valore ci sono i segni esteriori del cambiamento epocale che ha portato la Germania dalla monarchia alla Repubblica di Weimar e poi a tutto il resto. L’imperatore si avvicina, il macellaio è preso da un tremore “che lo scuoteva da capo a piedi. Chiuse gli occhi, poi li riaprì, e vide che l’ometto stava di fronte a lui. Ma il volto che gli apparve dinanzi agli occhi, a mezzo metro di distanza, somigliava davvero poco al ritratto che conosceva. La foggia dei baffi gli era sì familiare, ma la faccia era rugosa come quella di un vecchio, i lineamenti minuti e scarni, e l’ometto strizzava nervosamente gli occhi. Dall’apparizione emanava un leggero effluvio di lavanda, e gli stivali di vernice luccicavano sotto i calzoni rossi. Una mano si allungò verso di lui, una mano calzata di un guanto grigio, e armeggiò per un istante sul suo petto. Poi Otto sentì che quella mano gli toccava lievemente la spalla, per due volte. L’apparizione gli aveva dato un paio di pacche sulle spalle. Udì una voce sottile e velata che gli disse: “Hai fatto bene il tuo dovere, figliolo...””.
Nella “grande tempesta”, come la definisce Márai, l’imperatore Guglielmo II, il Kaiser, è diventato un ometto, un vecchio, anzi, un’apparizione. Un mondo tramonta, crolla; un altro sorge, confuso e carico di attese e di incognite. Finita la guerra, il protagonista rientra a Berlino. C’è la rivoluzione. “Come molti di coloro che erano tornati, Otto trovò un mondo che gli era estraneo (...). Si diffusero parole completamente nuove che tutti gridavano, chi con rabbia, chi con entusiasmo”. Da lì, per il macellaio, uno sconfitto della vita con la sua patacca di guerra sul petto, è una corsa individuale, rabbiosa, verso il precipizio, in una straordinaria, incredibile, scioccante metafora che anticipa la corsa della storia tedesca verso il buio. Non dimentichiamo: il romanzo è del 1924!