Cibi ultraprocessati: fanno male, ma perché?
Obesità. In Svizzera, come in molti altri Paesi, è una condizione molto diffusa: secondo i più recenti dati pubblicati sulla piattaforma della Confederazione, riguarda – insieme al sovrappeso – complessivamente il 43% della popolazione. Considerata fattore di rischio per malattie non trasmissibili (cardiovascolari, diabete di tipo 2, alcuni tipi di cancro), l'obesità rappresenta oggi una vera e propria epidemia, cresciuta negli ultimi cinquant'anni – secondo dati dell'OMS– quando l'apporto alimentare medio giornaliero di una persona nei Paesi a reddito medio-alto è aumentato di circa il 40%: insieme ad esso, fra il 1975 e il 2021, il tasso di obesità in queste regioni è più che triplicato. Non stupisce, considerate le implicazioni mediche, che il tema sia oggetto di studio fra epidemiologi. Come il brasiliano Carlos Monteiro, che negli anni Duemila ha individuato nei "cibi ultraprocessati" (UPF, espressione da lui resa popolare) i principali responsabili del diffondersi di malattie croniche legate all'alimentazione.
Tradizionalmente, gli UPF contengono concentrazioni più elevate di grassi, zuccheri e sale rispetto agli alimenti trasformati. E per lungo tempo si è creduto che fosse questo profilo nutritivo inadeguato a renderli così pericolosi per la salute. Ma, si legge in un articolo dell'Economist, un'analisi condotta recentemente da Samuel Dicken e Rachel Batterham dell'University College di Londra ha mostrato come, pure aggiustando i livelli di grassi, zuccheri e sale, gli UPF mantengano effetti fortemente nocivi per la salute. Da dove, viene, dunque, il problema?
Le categorie
Facciamo un passo indietro. Nel 2009, Monteiro ha ideato un sistema di classificazione, chiamato Nova, che suddivide gli alimenti in quattro categorie, a seconda del grado di lavorazione a cui sono sottoposti. Il primo gruppo comprende alimenti minimamente lavorati (come frutta e verdure fresche, latte, uova). Il secondo comprende ingredienti culinari di base frutto di pressatura, raffinazione, macinazione e simili semplici processi (esempi: olio di oliva, zucchero, burro). Il terzo gruppo rappresenta cibi processati, creati aggiungendo ingredienti appartenenti alla seconda categoria, e conservati tramite cottura, inscatolamento o imbottigliamento (come pane, verdure o tonno in scatola, formaggio). La quarta categoria, quella degli UPF, comprende alimenti fortemente trasformati come le bevande gassate, i cereali zuccherati e le pizze surgelate. Gli UPF come le bevande gassate, i cereali zuccherati e le pizze surgelate sono prodotti con ingredienti che non si trovano tipicamente nelle cucine delle nostre case: oli idrogenati, sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio, agenti aromatizzanti ed emulsionanti. Sono prodotti industrialmente scomponendo gli alimenti interi in componenti come zuccheri, proteine, amidi e fibre, i quali poi vengono modificati chimicamente e riassemblati con additivi come coloranti ed edulcoranti artificiali per rendere il cibo più appetibile.
I nuovi studi
Monteiro, in un'intervista rilasciata al Guardian in occasione del Congresso internazionale sull'obesità andato in scena nel mese di giugno in Brasile, aveva tracciato un paragone fra cibi UPF e sigarette. Ne avevamo parlato qui. «Sia il tabacco che le UPF causano numerose malattie gravi e mortalità prematura; entrambi sono prodotti da società transnazionali che investono gli enormi profitti che ottengono con i loro prodotti attraenti e che creano dipendenza con strategie di marketing aggressive e attività di lobbying contro la regolamentazione; entrambi sono pericolosi per progettazione».
In effetti, uno studio effettuato nel 2019 da Kevin Hall, ricercatore presso il National Institutes of Health (NIH) statunitense, ha mostrato come gli UPF funzionino un po' come le ciliegie: una tira l'altra. Nella ricerca condotta presso la struttura americana, i partecipanti divisi in due gruppi hanno ricevuto alimenti ultraprocessati o minimamente processati per due settimane, prima di scambiare la dieta per le successive due settimane. Le persone erano libere di mangiare quanto volevano. I risultati? Chiari. Chi seguiva la dieta ultraprocessata, si legge nell'articolo dell'Economist, mangiava circa 500 calorie in più al giorno rispetto a chi seguiva la dieta non processata, mangiando più velocemente e guadagnando mediamente un chilo in due settimane. Al contrario, chi si affidava alla dieta più "naturale", tendeva a perdere peso, la stessa quantità, sull'arco delle due settimane. Perché questa differenza nelle calorie assunte? Lo studio di Hall formula due ipotesi: da una parte, gli alimenti ultraprocessati potrebbero contenere più calorie per boccone in quanto – quando creati – vengono "asciugati" e privati dell'acqua naturalmente contenuta per migliorarne la conservazione. Dall'altra, la presenza di abbondanti grassi, zuccheri, sale e carboidrati in combinazioni definite "iperpalatabili" rende gli UPF, per progettazione, irresistibili. E questo potrebbe invogliare le persone a mangiare più velocemente, non dando alla pancia abbastanza tempo per dire al cervello che è sazio.
Per verificare le due ipotesi, Hall – anticipa l'Economist – condurrà un altro studio della durata di un mese. Ai partecipanti saranno sottoposte quattro diete diverse: due simili a quelle dello studio precedente e due nuovi regimi UPF: uno con bassa densità energetica e basso contenuto di ingredienti iperpalatabili, l'altro ad alta densità energetica ma, ancora, bassa iperpalatabilità. Hall spera di individuare se sia l'alta densità energetica, l'iperpalatabilità o entrambe le cose a portare a un eccesso nel consumo di UPF. Forse, i risultati raccolti nell'istituto americano potranno confermare quanto finora solamente ipotizzato all'University College di Londra: è la lavorazione stessa, e non la presenza di ingredienti nocivi in grandi quantità, a rappresentare un pericolo per la salute di chi mangia cibi ultraprocessati.