L'approfondimento

Se l'intelligenza artificiale può regalare la «vita eterna»

Cosa succederebbe se, in futuro, potessimo mantenere vivo il ricordo delle persone che non ci sono più con robot o cloni che comunicano e si comportano come chi abbiamo perso? – Lo abbiamo chiesto al professore Damiano Costa
© Netflix
Federica Serrao
22.03.2025 14:00

«Non si può vivere per sempre». Ce lo ricordano le canzoni, molte volte. Anche Bon Jovi, in It's my life, lo ripeteva, quasi come fosse un monito. «Ain't gonna live for ever». «Non vivrò per sempre». È una consapevolezza con cui gli esseri umani convivono, quotidianamente. Consapevolezza che, in molti casi, si intreccia alla paura della fine, della morte. Ma anche dell'ignoto. Nessuno, dopotutto, conosce gli ingredienti dell'elisir di lunga vita. O, meglio ancora, della vita eterna. Motivo per cui, spesso è inevitabile arrendersi alla caducità dell'esistenza. Ma se le cose cambiassero? Che cosa succederebbe se fossimo, improvvisamente, in grado di «vivere per sempre»? Domande, queste, che a una prima lettura potrebbero sembrare senza senso. Ma che sorgono spontanee, pensando al potere che ha, oggi, l'intelligenza artificiale. E soprattutto, pensando a quello che potrebbero avere in futuro. 

L'idea che l'intelligenza artificiale possa giocare un ruolo chiave nel garantire alle persone una sorta di «vita eterna» è uno scenario che film e serie tv propongono già da tempo. Nel 2013, nell'episodio intitolato «Be right back» (Torna da me, ndr), Black Mirror – celebre serie distopica – raccontava la storia di Martha. Una donna che, mentre sta affrontando la morte improvvisa del compagno Ash, deceduto in un incidente stradale, si imbatte in un'offerta che le permette di «rimanere in contatto» con il defunto grazie a un clone. Un robot fatto di carne sintetica, con le fattezze del compagno, che sfruttando tutte le informazioni lasciate da Ash sui suoi profili social quando era in vita, cerca di parlare, comunicare e comportarsi come avrebbe fatto l'uomo, copiandone anche la voce. 

Più recentemente, su Netflix è approdata «Cassandra». Una serie TV tedesca, a metà strada tra un horror e un film di fantascienza, che – senza fare troppi spoiler – ci mostra un mondo (utopico) in cui è possibile prelevare la coscienza di un essere umano quando è ancora in vita, per trasferirla in un sistema digitale o in un robot. Regalandogli, in questo modo, una sorta di «vita dopo la morte». Uno scenario simile a quello proposto da Altered Carbon (serie tv del 2018), che ci fa riflettere su quello che succederebbe se diventasse possibile codificare l'identità umana, trasferendola da un corpo all'altro. 

Con la tecnologia che fa passi da gigante, scenari come quelli dipinti da questi prodotti non sembrano più solo parte di un futuro distopico. Ci si chiede, insomma, se, prima o poi, l'intelligenza artificiale potrà davvero aiutare a «mantenere in vita», in maniera così concreta, qualcuno che non c'è più. Al contempo, però, ci si interroga anche su come strumenti di questo tipo potrebbe cambiare la nostra vita. Vita caratterizzata da un inizio e da una fine distinti. I cui contorni, però, potrebbero ora mescolarsi. Per capirne di più, abbiamo sottoposto la questione al professor Damiano Costa, direttore del Bachelor in Filosofia in USI-FTL.

Se fosse davvero possibile vivere per sempre caricando la nostra mente su un computer, la nostra vita cambierebbe radicalmente
Damiano Costa

Come cambia la percezione

A prescindere dal fatto che diventi possibile, concretamente, realizzare robot e sistemi di intelligenza artificiali come quelli citati in precedenza, viene da chiedersi quale sarebbe l'impatto che tecnologie di questo tipo potrebbero avere sulla nostra vita. In tal senso, il professore va dritto al punto. «Se fosse davvero possibile vivere per sempre caricando la nostra mente su un computer, la nostra vita cambierebbe radicalmente. Non soltanto perché, banalmente, avremmo sconfitto una delle nostre paure più profonde, o perché la vita di una mente in un computer sarebbe profondamente diversa da quella incarnata in un corpo umano». Secondo l'esperto, infatti la nostra vita sarebbe differente anche per un motivo più sottile e al tempo stesso anche più pervasivo. «Il fatto che la nostra permanenza nel mondo ha una durata limitata è uno dei grandi motori della nostra esistenza. Ci spinge a pianificare la nostra vita, prendendo decisioni importanti, a volte anche radicali e coraggiose, sapendo che, se rimandiamo troppo, potremmo perdere l'occasione di prenderle».

Il pensiero esplicito che un giorno saremo confrontati con la morte non ci spaventa soltanto, ma ci spinge anche a valutare la nostra vita, a fare i conti con noi stessi e con quello che stiamo facendo. A chiederci cos’è davvero importante per noi e se lo stiamo davvero perseguendo
Damiano Costa

Le grandi scelte della vita – come quella di avere figli, per esempio – comportano sempre dei rischi. «Ma sono dei rischi che siamo disposti a correre, anche perché sappiamo che non potremo rimandare queste scelte in eterno», osserva il professore. «In una certa misura, la percezione che la nostra vita non è infinita gioca un ruolo in ogni nostra scelta». Oltre a questo fattore, ne esiste però un altro altrettanto significativo. «Il pensiero esplicito che un giorno saremo confrontati con la morte non ci spaventa soltanto, ma ci spinge anche a valutare la nostra vita, a fare i conti con noi stessi e con quello che stiamo facendo. A chiederci cos’è davvero importante per noi e se lo stiamo davvero perseguendo. Anche per questo se davvero si realizzasse la possibilità di questa "immortalità digitale" la nostra vita ne uscirebbe profondamente trasfigurata: verrebbe a mancare questo motore fondamentale che imprime una direzione alla nostra esistenza». Il rischio, avverte l'esperto, sarebbe quindi quello «di fare meno i conti con noi stessi e con i nostri progetti, cadendo in una sorta di stagnazione esistenziale, procrastinando le decisioni importanti e vivendo meno intensamente quello che ci accade». In altre parole, nel momento in cui la nostra vita si dovesse «protrarre all’infinito», anche il valore che attribuiamo agli eventi «rischierebbe di dissolversi nell’assenza di un termine ultimo». «In effetti, potrebbe essere che questo stia già accadendo, anche senza prendere in considerazione la possibilità dell’immortalità digitale. Per diversi motivi, dall’evoluzione della medicina, alla relativa pace mondiale, all’abbandono della religione tradizionale, ci confrontiamo sempre di meno con la morte e questo potrebbe giocare un ruolo fondamentale nella procrastinazione di alcune scelte esistenziali a cui assistiamo nella nostra società», commenta il professor Costa. 

Oltre al nostro corpo

Una delle più grandi domande della filosofia, di cui ci rende attenti il nostro interlocutore, è quella relativa alla natura umana: chi o cosa siamo noi? «Di certo, questa prospettiva dell'immortalità ha un impatto su questo enigma fondamentale», ci spiega l'esperto. «Si tratta di una prospettiva che si intreccia a doppia mandata con la questione relativa alla nostra natura. Se fosse davvero possibile sopravvivere alla morte del corpo caricando la nostra mente su un computer, allora ne seguirebbe che un essere umano non sarebbe meramente riducibile al suo corpo». Una conseguenza molto semplice, legata al fatto che continueremmo a esistere anche senza il nostro corpo. «Insomma, da un lato questa idea di immortalità digitale ha un gusto molto immanente, perché potremmo pensare di non avere più bisogno di un Dio trascendente per sconfiggere la morte. Ma dall'altro, poggia su una premessa profondamente anti-materialista: un essere umano non sarebbe un mero pezzo di materia, un insieme di organi, un corpo. Anzi, questi organi gli sarebbero talmente accessori che potrebbe farne completamente a meno». 

Creare una versione artificiale del nostro io non equivale a sopravvivere, e non potremo vivere per sempre attraverso una versione artificiale di noi
Damiano Costa

Certamente, riflessioni di questo tipo ci portano a chiederci se gli esseri umani siano davvero «qualcosa di più del proprio corpo». Al punto tale da poter arrivare, un giorno, a sopravvivere alla morte creando realmente una versione artificiale del proprio io. «Per quanto le due questioni siano strettamente legate e sia fondamentale apprezzarne l'intreccio, si tratta comunque di questioni distinte. Ci interroghiamo da millenni sulla questione, chiedendoci se siamo qualcosa di più del nostro corpo, e continueremo a farlo, anche in futuro. Attraverso la religione con le sue proposte di fede, così come attraverso la filosofia e i suoi argomenti razionali». Più semplice, invece, a detta dell'esperto, è trovare una risposta al secondo quesito. «Creare una versione artificiale del nostro io non equivale a sopravvivere, e non potremo vivere per sempre attraverso una versione artificiale di noi».

I motivi a favore di questa visione sono diversi. «Il primo è che i computer di oggi non sembrano avere una caratteristica fondamentale della nostra esistenza, ossia la coscienza. Non nel senso della voce morale interiore che ci dice cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma del carattere cosciente che accompagna quello che facciamo». Come sottolinea il professor Costa, esiste un «cosa si prova a» essere un essere umano. Componente fondamentale per spiegare questa differenza. «Ciascuna delle cose che facciamo è accompagnata da un'esperienza cosciente, la viviamo in prima persona, abbiamo su di essa un punto di vista interno. Le operazioni di una macchina, invece, per quanto possano sembrare più simili a quelle di un essere umano non sono coscienti». Una macchina fotografica che cattura l'immagine di ciò che ci circonda ha un vissuto interno al momento dello scatto. «Non esiste un "cosa si prova" a essere una videocamera o un computer. Non esiste una vita mentale interiore di un computer. Un computer elabora certe informazioni, ma non vive questa elaborazione come invece noi viviamo i nostri pensieri. Come potremmo mai dire che siamo sopravvissuti se la nostra versione artificiale è totalmente priva di questo aspetto fondamentale della nostra vita, che è la coscienza?». 

Copie digitali

Quella delle «macchine dotate di coscienza» in un futuro non troppo lontano è una questione molto dibattuta. «Anche i filosofi di oggi si stanno interrogando sul caso, chiedendosi se esistano ragioni di principio per le quali una macchina sia, per natura, incompatibile con il possedere una coscienza. È un discorso a parte, che andrebbe a sua volta approfondito, ma credo che se anche le macchine, un giorno, fossero dotate di coscienza, la prospettiva dell'immortalità digitale come l'abbiamo descritta sia da escludere per un altro motivo».

Facciamo un passo indietro: la tecnica proposta da diversi prodotti televisivi e cinematografici suggerisce, come detto, di creare una copia, in versione digitale, del nostro io. «Perché io possa sopravvivere in questo modo, quella copia deve essere me», sottolinea il professore. «E questa copia non può essere me, per diversi motivi. Prima di tutto, perché così come è possibile attivare una copia digitale di me, è possibile anche attivarne diverse in modo che siano slegate fra di loro. E come potrei mai io, che sono solo una singola persona, diventare più persone?». Non solo. Queste copie digitali potrebbero venire attivate non solo alla morte di un corpo, ma anche prima che ciò accada. «In una prospettiva del genere, diventa evidente che la copia digitale di me non sono io: io e questa copia trascorreremmo esistenze separate, prenderemmo decisioni indipendenti, non saremmo coscienti l’uno dell’altro. Insomma, anche se la mia copia digitale fosse dotata di coscienza, non sarebbe me, e di conseguenza io non potrei sopravvivere attraverso di essa. Al massimo potrei essere sostituito da essa, ma è una prospettiva che suona molto più inquietante». 

Una copia controversa (ma non troppo)

Tuttavia, è bene precisarlo, esistono anche delle situazioni in cui le copie digitali potrebbero avere dei risvolti positivi. «Uno di questi casi è quello dell'ambito educativo e culturale. Pensiamo agli avatar di importanti figure del passato. Al Museo Nazionale di Storia Americana di Washington i visitatori possono dialogare con un avatar digitale di Abraham Lincoln. Il suo comportamento è basato sui suoi discorsi e sui suoi scritti, così da rendere più interattiva e realistica la visita al museo», ci spiega il nostro interlocutore. «Più sono i dati a disposizione di chi crea questi avatar, più questi saranno realistici e il loro comportamento simile a quello della persona originale di cui sono copie». 

Un'operazione del genere comporta dei rischi, come quello di rimandare la vera e propria elaborazione del lutto
Damiano Costa

Ed è proprio da questo esempio positivo che ci ricolleghiamo a quello iniziale e, sicuramente, più controverso. Ossia la possibilità di creare la copia digitale di una persona defunta. «Esistono già delle società che propongono questo servizio. Si può fornire loro qualunque materiale di una persona scomparsa, come fotografie, filmati, registrazioni vocali e persino conversazioni WhatsApp. Con tutto questo materiale, attraverso l'intelligenza artificiale, si crea un avatar che simula, in maniera molto raffinata, il comportamento della persona originale». Il problema, però, è che creare copie digitali di questo tipo è un'arma a doppio taglio. «Da una parte potrebbero, forse, essere utili nell'elaborazione del lutto, come conforto, soprattutto nei casi più traumatici, e come mitigazione della sofferenza del distacco». Secondo l'esperto, potrebbero anche contribuire alla costruzione e alla trasmissione della memoria familiare, in maniera simile – ma più potente – a quanto già succede grazie a fotografie, scritti o registrazioni del defunto.

Esiste, però, anche un'altra faccia della medaglia. «Un'operazione del genere comporta dei rischi, come quello di essere portati, paradossalmente, a rimandare la vera e propria elaborazione del lutto, restando patologicamente aggrappati alla situazione e finendo per trovarsi in una sorta di dipendenza emotiva dalla copia digitale». Si correrebbero, insomma, dei rischi amplificati rispetto a quelli già presenti con gli strumenti di cui disponiamo per ricordare. Complici, va da sé, il realismo e «l'immersività» che comportano esperienze di questo tipo. «In ogni caso, non credo si debba guardare a questa possibilità come una novità da demonizzare. L'effetto che questi strumenti avranno su di noi sarà il risultato di tanti fattori, tra cui la situazione concreta che ci troveremo a vivere, la maturità che potrà metterci ciascuno di noi, e la consapevolezza che avremo. Da una parte, della natura di ciò con cui stiamo interagendo, e dall’altra di noi stessi». 

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