«Solo il desiderio di bellezza salverà l’italiano»

È mancato soltanto un grido di battaglia. Qualcosa del tipo: «I cruscanti non si arrenderanno mai!» per coronare l’incontro luganese di ieri sera alla Biblioteca cantonale con il presidente della gloriosa e prestigiosissima Accademia della Crusca, Claudio Marazzini. Invitato nell’ambito del progetto TicinoLettura sostenuto dall’Aiuto federale per la lingua e la cultura italiana, l’autorevole Defensor fidei del nostro idioma ha presentato il suo ultimo libro «L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua» (edito da Rizzoli) al pubblico folto ed interessato anche in questa peculiare regione settentrionale di italofonia linguistica e culturale al di fuori dei confini nazionali italiani. Introdotto dal direttore della biblioteca Stefano Vassere e pungolato dal linguista Alessio Petralli, direttore della Fondazione Möbius (la serata faceva parte del ciclo «Il futuro digitale prossimo venturo»), Marazzini che guida la Crusca dal 2014 ha tracciato un quadro in chiaroscuro, non senza qualche sorpresa in chiave elvetica, per il futuro della nostra bistrattata lingua. La Crusca è la massima accademia che si occupa di lingua italiana e si trova spesso a difendere la lingua di Dante su di un fronte in cui si scatenano sempre nuove battaglie: rivendicazioni localistiche, richieste di adeguamento ai dettami del «politicamente corretto», tentativi di rovesciare le norme linguistiche tradizionali o di affrettare le innovazioni (il nuovo pare sempre più bello del vecchio), invasioni di parole forestiere in dosi massicce, depotenziamento dell’insegnamento della lingua madre nelle scuole. L’italiano, insomma, oggi ha bisogno di essere difeso e promosso a tutto campo e le tecnologie digitali offrono in questo senso notevoli opportunità, ma nascondono anche grandi insidie. E il presidente della Crusca non si è voluto nascondere. Anche perché, per usare le parole di Flaiano, «un ottimista spesso è solo un pessimista male informato», il libro di Marazzini vuole fotografare la realtà senza ipocrisie ricordando anche le tante battaglie già perdute e il progressivo rapido degrado della nostra lingua nell’uso ma soprattutto nella consapevolezza che gli italoparlanti, purtroppo anche ai livelli più alti istituzionalmente e culturalmente, ne rivelano. E allora ecco un presidente del Consiglio italiano che al WEF di Davos a differenza degli altri capi di Stato che parlano in tedesco, francese eccetera, nella nostra lingua non dice neppure una parola o un’università pubblica del calibro del Politecnico di Milano che per anni porta avanti una battaglia a favore dell’insegnamento in inglese fino all’ultima istanza della Corte Costituzionale. Ben vengano allora le spinte della curia vaticana e degli ultimi pontefici che rinnovano (quasi si stesse sostituendo al latino) la vocazione internazionalistica dell’italiano e ben vengano i neologismi e persino i piemontesismi di Bergoglio se sono segno tangibile di un’esplicita politica in favore della lingua del sì. E se la storia dell’italiano (disceso dalle classi alte fino al popolo e non nato dal basso ma anzi quasi dappertutto elitaria lingua «seconda» per generazioni e forgiato nell’identità nazionale soltanto attraverso eventi laceranti come le esperienze dolorose della Prima guerra mondiale o i traumi dell’emigrazione) serve a Marazzini per motivare, spiegare e analizzare i meccanismi culturali che ancora inducono quasi diffidenza, se non vergogna degli italiani, nei confronti della loro lingua ecco anche che nella sua genesi e nel suo modo di affermarsi si nasconde il vero segreto di una lingua capace di essere amata ovunque perché non costruita su guerre, invasioni e violenze ma soltanto sull’amore per la bellezza, sulla comunicazione di positività, sulla forza di persuasione culturale di quelli che Vassere ha magistralmente definito «valori morbidi». Valori ben presenti, secondo Marazzini, non soltanto in questa nostra terra «d’anima genuinamente lombarda e di sentimento politico robustamente svizzero», come ricordava sempre il grande storico del diritto Adriano Cavanna, ma anche nel resto della Confederazione per cui il gran maestro di tutti i cruscanti non ha nascosto stima, apprezzamento e persino un pizzico d’invidia. Non foss’altro perché la Svizzera definisce senza alcuna esitazione nella propria Costituzione l’italiano come lingua «ufficiale e nazionale» mentre la vicina Repubblica non ha mai osato spingersi tanto in là nonché per alcuni segnali che in prospettiva (l’arrivo di Cassis in Consiglio federale, la scelta di conduzione italofona di Marina Carobbio ma anche l’evoluzione e trasformazione sociale degli italofoni oltregottardo da ceti popolari addetti ai lavori più umili in classi dirigenti e culturalmente profilate, come ad esempio, con una certa frequenza a livello accademico e universitario). Nel contesto di un quadro normativo rossocrociato (pensiamo all’esistenza, al mandato e alle funzioni della delegata al plurilinguismo) ammirevole se osservato dall’Italia e che garantisce alle minoranze ( tra cui la nostra) di poter sempre far sentire la propria voce e le proprie istanze con buone ragioni di diritto. Nell’ovvia speranza che la cultura di riferimento italiana rimanga vitale e valida. Al pessimismo della ragione che vede esterofilia ed ignoranza dilaganti mettere seriamente a rischio il futuro dell’italiano, Marazzini contrappone dunque l’ottimismo di una volontà ferma nel mantenere salde le posizioni del nostro idioma riuscendo ad essere moderni senza perdere di vista la purezza della lingua di Dante. Anche con un uso intelligente e proficuo delle tecnologie digitali ( basta un’occhiata al sito della Crusca) o invocando una sorta di alleanza tra grandi nazioni neolatine. Perché solo con la fiducia nella cultura e nella bellezza si potrà tornare a dare valore di scambio alla nostra meravigliosa e minacciata lingua.