L’intervista/ andrea revelant

Splendori e miserie del Giappone imperiale

L’analisi dell’autore di un ampio saggio sulla storia moderna del Paese del Sol Levante
Stirpe guerriera. Samurai del clan Satsuma fedeli sostenitori dell’imperatore durante la guerra civile «Boshin» intorno al 1860.
Sergio Caroli
29.01.2019 06:00

Attraverso una sterminata quantità di fonti nipponiche e internazionali, Andrea Revelant, professore di storia del Giappone all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ricostruisce analiticamente la storia politica, sociale, internazionale del Paese del Sol Levante nel saggio «Il Giappone moderno dall’Ottocento al 1945» (Einaudi). Nella storia del Giappone in età moderna il periodo Edo noto anche come periodo Tokugawa (1603- 1868) indica quella fase della storia nipponica in cui la famiglia Tokugawa detenne attraverso il bakufu il massimo potere politico e militare nel Paese. Tale fase prende il nome dalla capitale Edo, sede dello shôgun, ribattezzata Tokyo nel 1869. A quella stagione seguì la «rivoluzione Meiji», che segnò una radicale trasformazione nella struttura sociale e politica del Giappone con la riconsegna del potere all'imperatore dopo secoli di dominio degli shôgun. Tale periodo vide l’abolizione del bakufu, il governo con sede a Edo. Iniziava un impetuoso sviluppo economico, durato fino al 1945. Il Giappone avviò una politica di espansione conquistando prima la Corea e Taiwan e dal 1931 iniziò l'espansione in Manciuria e la penetrazione in Cina. Abbiamo intervistato lo studioso.

Professor Revelant, per due secoli il Giappone fu isolato dal mondo, finché nel 1853 esso cedette alle pressioni europee e statunitensi aprendo regolari scambi commerciali e diplomatici. Perché il periodo 1853-67, chiamato bakumatsu, è cruciale?

«La forzata apertura del Giappone agli scambi con le potenze occidentali destabilizzò l’ordine interno al Paese, mettendo a nudo la debolezza dello shogunato. Molti samurai si convinsero della necessità di varare radicali riforme per fronteggiare la minaccia straniera. Le tensioni tra i diversi centri di potere sfociarono infine in una breve guerra civile, cui seguì la costruzione di un nuovo Stato moderno».

Nell’ultimo decennio dell’Ottocento prende avvio la formazione del potere imperiale nipponico. Come vi si configurano i poteri costituzionali?

«Secondo la Costituzione del 1889, l’imperatore era l’unico depositario della sovranità. L’esercizio dei poteri sovrani era tuttavia delegato agli organi previsti dalla medesima carta in ciascun ambito istituzionale. La funzione legislativa era affidata principalmente a un Parlamento bicamerale, diviso tra Pari e rappresentanti eletti dal popolo a suffragio molto ristretto. Il diritto di voto fu poi esteso per gradi, fino a essere concesso a gran parte degli uomini nel 1925. Il Governo era formalmente responsabile solo verso l’imperatore, cui spettava la nomina del Primo ministro. Di fatto ciò servì nei primi tempi a mantenere il regime oligarchico emerso dopo la caduta dello shogunato. La prassi politica condusse però a un graduale rafforzamento della Camera bassa, culminato dopo la Prima guerra mondiale in una serie di governi di partito. Questa transizione verso il parlamentarismo, rimasta priva di garanzie scritte, si interruppe con la svolta autoritaria degli anni Trenta».

Nel 1905 la guerra russo-giapponese vide lacocente sconfitta zarista. Quali ne furono gli effetti sullo scacchiere internazionale?

«Il Giappone, che già aveva battuto la Cina imperiale nel 1895, ebbe la strada spianata per annettersi la Corea (1910). Con la cessione da parte russa di vari diritti in Manciuria meridionale ottenne inoltre una base per attività di penetrazione economica e politica nel nordest cinese. Questa presenza sarebbe poi diventata una delle maggiori cause del conflitto tra Giappone e Cina repubblicana. Lo sforzo giapponese di acquisire vantaggi esclusivi sul continente, a emulazione delle potenze europee, produsse anche attriti con gli Stati Uniti, sostenitori della cosiddetta politica della “porta aperta” in Cina. L’antagonismo nippo-americano, esteso al Pacifico, avrebbe più tardi indotto la Gran Bretagna ad attenuare la sua alleanza bilaterale con il Giappone, fino a scioglierla nel 1923. Il Governo zarista trovò invece conveniente accordarsi con Tokyo sulla ridefinizione delle rispettive sfere d’influenza in Manciuria e Mongolia; ne risultò un equilibrio che resse fino alla rivoluzione del 1917. Al tempo stesso, russi e britannici composero i loro contrasti in Asia centrale. L’aggressività russa si reindirizzò di conseguenza verso i Balcani, dove sarebbe diventata uno dei fattori scatenanti della Prima guerra mondiale».

Durante gli anni Trenta la concorrenza giapponese, anche grazie al dumping, cacciò dai mercati dell’Asia (ed anche dall’America Latina) molte merci inglesi, olandesi e americane, specie nel settore tessile. La guerra commerciale precedette quella con le armi?

«La grande Depressione spinse le maggiori potenze ad adottare politiche protezioniste. Questo suscitò tensioni con il Giappone, che dipendeva dai ricavi delle esportazioni per l’acquisto di gran parte delle materie prime necessarie ad alimentare le sue industrie. Da qui l’idea che la soluzione definitiva al problema fosse la creazione di un blocco autarchico in Asia Orientale, da perseguire se necessario anche con l’occupazione diretta di parte della Cina e delle colonie europee nel sudest asiatico».

Fu il controllo occidentale sulle vitali forniture di petrolio a indurre il Giappone ad attaccare gli Stati Uniti?

«Il presidente Roosevelt tentò di arrestare l’espansionismo giapponese attuando delle sanzioni economiche. Questa politica culminò nel luglio del 1941, quando in risposta all’occupazione dell’Indocina francese, gli Stati Uniti posero l’embargo su tutti i prodotti petroliferi e congelarono i capitali giapponesi presenti sul loro territorio. A quel punto, Impero britannico e Indie Orientali Olandesi presero gli stessi provvedimenti. Ciò mise Tokyo di fronte a un dilemma: trovare un compromesso con gli Stati Uniti oppure reagire con le armi, prima che il calo delle scorte di carburante rendesse il Giappone inoffensivo. Alla fine si decise di attaccare se entro novembre non fosse stato raggiunto un accordo diplomatico. I negoziati però si incagliarono sulla questione del ritiro dalla Cina, inaccettabile per l’esercito imperiale. Una volta occupato il sudest asiatico, la speranza di ottenere materie sufficienti a sostenere lo sforzo bellico si rivelò però fallace».

L’assenza delle grandi portaerei dalla rada di Pearl Harbor al momento dell’attacco giapponese ha suscitato sospetti. Cosa se ne sa oggi?

«La tesi cospirazionista, secondo cui l’attacco giapponese sarebbe stato provocato ad arte da Roosevelt per giustificare l’intervento americano nella guerra mondiale, è circolata fin dall’epoca del conflitto. Studi rigorosi hanno tuttavia dimostrato l’inconsistenza di tali sospetti».