Serie TV

«Adolescence», un pugno allo stomaco in quattro puntate

La miniserie britannica, su Netflix, colpisce a tutti i livelli: regia, sceneggiatura e interpretazione – La visione, a tratti, è insopportabile ma proprio per questo necessaria
© Netflix
Marcello Pelizzari
20.03.2025 10:30

È una miniserie britannica. E, al contempo, un pugno allo stomaco. Adolescence, quattro episodi, ha ricevuto e sta ricevendo consensi importanti. Raramente, negli ultimi anni, la critica è stata così compatta nel gridare al (quasi) capolavoro. Ci sono buone ragioni, da parte nostra, per aggregarci. O, quantomeno, per parlarne. Creata da Stephen Graham (che è pure parte del cast) e Jack Thorne, diretta da Philip Barantini, la miniserie è incentrata sul caso di omicidio di una ragazzina, di cui è accusato un compagno di classe, ed esplora gli effetti del bullismo, del cyberbullismo e di fenomeni come la sottocultura incel sui giovanissimi. Convince, e qui anticipiamo il giudizio, su tutti i livelli: regia, sceneggiatura, interpretazione.

Uno degli elementi distintivi di Adolescence è l'uso del cosiddetto piano sequenza. In altre parole, ogni episodio è girato in un'unica ripresa continua. Senza tagli apparenti. Una scelta stilistica ambiziosa, e precisa, che lo stesso Barantini aveva sperimentato in Boiling Point - Il disastro è servito. Una scelta, ancora, che ha richiesto una preparazione meticolosa nonché un coordinamento fra attori e troupe. L'espediente, evidentemente, funziona. Proprio perché consente allo spettatore di seguire la trama con maggiore intensità. Di essere, di fatto, presente nei luoghi della miniserie. O, se preferite, di non poter scappare. L'angoscia, in parte, è dovuta proprio alla scelta di Barantini. Alla decisione, la sua, di catapultarci al centro della scena, trasferendoci un senso di impotenza e, parallelamente, un terribile vuoto pneumatico. Le domande degli investigatori, a ben vedere, sono anche le nostre: com'è possibile che un ragazzo apparentemente tranquillo, «a posto», cresciuto in un ambiente perbene, sia accusato di un crimine così efferato e violento?

Adolescence, va da sé, è attualissima. Perché figlia ed espressione della nostra epoca. E perché, con una durezza a tratti inaudita, affronta temi centrali, per tutti noi, come la violenza giovanile, la pressione esercitata dai social e le difficoltà che i nostri figli devono affrontare in una società esigente ancorché alienante e per certi versi ghettizzante. A far male, a infastidirci se vogliamo, non sono soltanto i temi, che Barantini ci sbatte in faccia come fossero schiaffi, ma il fatto che lo spettatore li assimili attraverso gli occhi dei protagonisti. Adolescence è un viaggio, tremendo, che si sofferma sull'influenza tossica di certi ambienti, online e offline, nei quali la frustrazione, inesorabilmente, si trasforma in odio e, altrettanto inesorabilmente, diventa violenza. A far male, ancora, è il fatto che la mascolinità tossica nasca, o possa nascere, anche nelle camerette di adolescenti, come detto, normali. O, peggio, che crediamo normali.

Se è vero che la serie, in fondo, è un invito a prestare maggiore attenzione alle attività social dei più giovani, è altrettanto vero che Adolescence contribuisce a quel senso di vuoto, pneumatico, legato a doppio filo alla disconnessione fra genitori e figli, tipica di questa era digitale. Le quattro puntate, prese singolarmente e nell'insieme, sono un'esperienza difficile, in alcuni momenti pure insopportabile. Ma, parallelamente, sono un'esperienza necessaria, al di là dei citati pregi tecnici. Un'esperienza che non dà spazio a catarsi né tantomeno alla speranza. Un pugno allo stomaco, già. 

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