L'intervista

Ecco come il Ticino ha conquistato l'America

Giancarlo D'Erchie, cresciuto a Riva San Vitale, è il supervisore degli effetti visivi della serie «Citadel: Diana», schizzata al primo posto su Amazon
© Amazon EU
Marcello Pelizzari
19.10.2024 12:45

Negli Stati Uniti, è schizzata direttamente al primo posto fra le serie più guardate su Prime Video, la piattaforma di Amazon. A conferma della bontà del progetto, verrebbe da dire. Stiamo parlando di Citadel: Diana, un prodotto del multiverso Citadel girato, in parte, anche in Ticino. Un prodotto che, fra gli altri, ha potuto contare sul sostegno e sul talento di Giancarlo D’Erchie, supervisore degli effetti visivi cresciuto a Riva San Vitale ma, da anni oramai, attivo Oltreoceano (e nel mondo). Lo abbiamo raggiunto via Teams a Los Angeles, dove sta lavorando a un altro progetto. Sorridente, ha srotolato il film della sua vita.

Riavvolgiamo il nastro, per cominciare: chi è e che cosa ha fatto, finora, Giancarlo D’Erchie? Riformuliamo: come ci è arrivato un esperto di effetti visuali a Citadel: Diana?
«Sono cresciuto a Riva San Vitale, ma da quindici anni circa sono un cittadino del mondo. Sono stato in Canada, a Pechino, in Australia. Di recente, invece, mi sono concentrato sul progetto Citadel: Diana. Una serie che, fra i produttori, vanta i fratelli Anthony e Joe Russo. Famosi per aver lavorato a molti film dell’universo Marvel».

Citadel è un progetto di serie interconnesse che toccano vari Paesi. È questo che rende il tutto così speciale e unico?
«Sì, direi di sì. Anche perché, in questo caso, l’idea era di creare qualcosa che unisse, da una parte, la mentalità europea e, dall’altra, il know-how di Hollywood. Di per sé, è qualcosa che non è mai stato fatto. Perlomeno, non in maniera così netta».

Citadel: Diana è una serie italiana, ma girata (anche) in Ticino. Il passo, in questo senso, è stato breve?
«Non è stato né breve né semplice, per certi versi. Leggendo lo script per la prima volta, nel 2021, notai ovviamente la presenza di Lugano e delle montagne svizzere. Fra me e me, pensai subito che quelle scene si sarebbero girate in Ticino. E per questo ne parlai sia con Amazon sia con Cattleya, due delle case di produzione che hanno lavorato alla serie. Spiegai che c’era la possibilità di parlare con la Ticino Film Commission e che girare direttamente nel nostro cantone sarebbe stato meglio, molto meglio che puntare su Como e Lecco come inizialmente previsto. Como e Lecco che, per inciso, avrebbero poi subito un ritocco per sembrare svizzere. Così, ho messo in contatto l’intera struttura con Alberto Meroni. Il processo è stato lungo, sia in termini di logistica sia di contratti, ma dopo sei o sette mesi siamo infine arrivati a Lugano per girare».

Da ticinesi, fa un certo effetto vedere luoghi a noi noti e cari, come il Lungolago di Lugano, immersi nel tipico glamour hollywoodiano. Come ha reagito l’America rispetto al Ticino? Il nostro cantone si è guadagnato un posto di rilievo nelle scelte dei produttori?
«Dopo i recenti scioperi, è vero, le case di produzione hanno investito molto in Europa. Proprio nell’ottica di spostare alcuni progetti. La Svizzera, devo dire, non è, o forse è meglio dire non era, così conosciuta. Non come l’Italia, la Francia, la Germania o la Spagna. Paesi che, anche a livello diplomatico, spendono molto per promuoversi presso gli studios di Hollywood. Ma il potenziale, quello, c’è. Eccome se c’è. La Svizzera, detto del tocco che abbiamo dato a Citadel: Diana, ha un suo glamour. Non solo, pensando alle produzioni internazionali può fungere da hub. Da centro nevralgico. È qualcosa che ho detto anche alla Ticino Film Commission».

È un progetto che aspettavo da tutta la vita: sin da quando mi sono interessato al cinema, mi sono detto che un giorno sarebbe stato bello fare qualcosa nei luoghi in cui sono cresciuto ma con uno stile hollywoodiano

Come è stato, personalmente, lavorare a questa serie?
«È un progetto che aspettavo da tutta la vita: sin da quando mi sono interessato al cinema, mi sono detto che un giorno sarebbe stato bello fare qualcosa nei luoghi in cui sono cresciuto ma con uno stile hollywoodiano. Perciò, Citadel: Diana è stata una delle esperienze più belle e gratificanti in carriera. Anche perché ho aiutato il regista e lo showrunner della serie a inventare, diciamo così, tutta la tecnologia utilizzata dai cattivi: dalle lenti a contatto alle armi. Durante le riprese, in Ticino, ho avuto molti scambi con studenti e persone interessate al cinema. Ho potuto far vedere che cosa faccio e facciamo. È stata un’opportunità magnifica».

Finora, è emersa con forza la capacità umana. Il cosiddetto talento. Cinema e televisione, tuttavia, temono l’avvento dell’intelligenza artificiale. È uno dei motivi per cui sono stati indetti i vari scioperi…
«Non parlerei di minaccia, però. L’intelligenza artificiale è uno strumento che aiuta i vari protagonisti del cinema e della televisione a essere più efficienti. Nel mio mondo, quello dei visual effects, l’intelligenza artificiale è entrata già da diversi anni. Aiuta in post-produzione, velocizza molti aspetti e permette agli umani di concentrarsi su ciò che conta di più. In ogni caso, dietro a ogni aspetto di un film o una serie ci sarà sempre un essere umano. Per carità, il sogno di ogni produttore esecutivo probabilmente è poter tirar fuori un progetto senza pagare attori, registi, sceneggiatori e via discorrendo. Ma, detto questo, non penso che lo stesso produttore esecutivo possa semplicemente chiedere a ChatGPT di scrivere una sceneggiatura. L’intelligenza artificiale è entrata nel cinema per cambiare l’industria, ma non significa che l’uomo scomparirà del tutto».

Il fatto che sempre più produzioni vengano spostate lontano dagli Stati Uniti è sì una conseguenza degli scioperi ma, immaginiamo, anche un effetto Netflix: le piattaforme hanno fatto capire all’industria che per avere successo, globale, non è necessario avere il marchio made in USA. Giusto?
«Sì, Netflix in particolare ha portato questo punto di vista differente. E questo trend, beh, è diventato ancora più forte dopo gli scioperi. A Zurigo, durante il Film Festival, le maggiori case di produzione americane hanno insistito sul voler portare sempre più produzioni in Europa. Per questo dicevo che la Svizzera dovrebbe diventare, un domani, un vero e proprio hub. Il potenziale, come spiegavo, c’è».

E per i professionisti come Giancarlo D’Erchie ha ancora senso rimanere negli Stati Uniti o in Canada?
«Dipende. Al momento, mi trovo a Los Angeles per un progetto. Poi vediamo dove mi porterà la prossima collaborazione. È chiaro che, proprio per quello che ci siamo detti sin qui, il mondo dei film e delle serie è oramai globale. Citadel: Diana è stato apprezzato dalla stampa americana e internazionale. I critici hanno sottolineato la qualità delle scene e degli effetti visivi, dando quindi un senso anche al mio lavoro».

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