L'anniversario

I vent'anni di Lost, la serie televisiva divenuta cult

Il 22 settembre del 2004 il volo di linea 815 della compagnia australiana Oceanic Airlines precipitava su un'isola del Pacifico – Ripercorriamo le sei stagioni e il loro significato con il sociologo Massimo Cerulo
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Marcello Pelizzari
21.09.2024 09:00

Vent’anni fa, il 22 settembre del 2004, il volo di linea 815 della compagnia australiana Oceanic Airlines, in viaggio da Sydney a Los Angeles, precipitava su un’isola del Pacifico. Ci fermiamo subito: non stiamo ripercorrendo un «vero» disastro aereo, bensì la trama di una serie televisiva. Lost, proprio così. Una serie che, sull’arco di sei stagioni e 114 episodi, ha narrato le vicende dei sopravvissuti fra eventi apparentemente inspiegabili, misteri, segreti e, soprattutto, rapporti umani.

Che cosa resta, oggi, di quell’epopea? E ancora: quanto siamo cambiati, noi spettatori, sia allora, fra una stagione e l’altra, sia a distanza di vent’anni? Come si è sviluppato il panorama delle serie? Infine, davvero possiamo parlare di Lost come di un piccolo, grande capolavoro dei nostri tempi, grazie anche alle intuizioni dei suoi ideatori J. J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber? Domande che si intrecciano, inevitabilmente, con le storie di questa serie così iconica e, al contempo, così identificabile. Domande che abbiamo girato al dottor Massimo Cerulo, ordinario di Sociologia presso l’Università di Napoli Federico II e ricercatore associato del Laboratoire CERLIS alla Sorbona di Parigi.

Il culto televisivo

Innanzitutto, partiamo dalle cosiddette basi. E dal concetto di culto televisivo. Espressione più volte usata proprio per descrivere Lost. Prodotto che aveva saputo radunare tanti, tantissimi fan attorno alla sua intricatissima trama. «Il culto televisivo di fine Novecento – esordisce il nostro interlocutore – nasce con le televisioni private diffuse su scala nazionale, in Italia, e con l’apparizione di telefilm, telenovele e cartoni animati provenienti da altri continenti. Con il passare degli anni e con l’arrivo delle prime serie tv, accompagnate da reality e talk show, abbiamo assistito a uno «straripamento delle emozioni» in cui queste ultime, invece di produrre confronto sociale fra diversità e valori comuni, hanno prodotto principalmente voyeurismo. In termini sociologici, possiamo affermare che la commercializzazione della realtà prodotta dal mezzo televisivo ha generato, come diretta conseguenza, la commercializzazione di emozioni preconfezionate da scartare e utilizzare a mo’ di popcorn nei saloni e nelle cucine degli utenti televisivi degli anni Novanta e dei primi del Duemila. L’individuo del Duemila, appunto, aveva una profonda fame di emozioni. Per soddisfarla, furono create le serie tv. Il 22 settembre del 2004, con Lost, si aprì una nuova fase del consumo televisivo che perdura ancora oggi tramite le piattaforme streaming».

Lost, fra le altre cose, come detto seppe radunare orde e orde di fan. Non solo, in un’epoca pre-social, o quasi, riuscì a spostare il discorso anche su Internet, con svariati forum di discussione a tema e perfino una Wikipedia dedicata. Come ci riuscì? Grazie a tre elementi, secondo l’esperto: «Comunità, condivisione, resistenza. In quegli anni, si riscoprì il valore dell’ascoltare una storia restando insieme. Il vecchio focolare trasformato nelle puntate di Lost. Ci si riuniva, anche con congruo anticipo, con la scusa della visione della puntata: in realtà, iniziava a diffondersi una nuova necessità di comunità, di confronto collettivo, di dialogo rassicurante di fronte a una realtà che iniziava a manifestare le prime crepe dopo i fasti di un individualismo e di un benessere sfrenati degli anni Ottanta e Novanta. Nel 2004 siamo alle porte delle grandi crisi: economica, familiare, sentimentale. Lo sfaldamento del soggetto che credeva di bastare a sé stesso. Ci riscoprimmo tutti «persi», appunto, e frammentati in diversi ruoli sociali. Proprio come i protagonisti della serie i quali, dopo l’atterraggio di fortuna sull’isola sperduta, sono costretti a guardarsi dentro, a fare i conti con sé stessi e, soprattutto, a creare legami sociali e di comunità per sopravvivere e resistere alle avversità della vita».

Dopo Lost, ci volle Game of Thrones per tornare a riunire torme di fan in pub, appartamenti privati, associazioni, sale universitarie. E, non a caso, in un nuovo periodo di crisi mondiale
Massimo Cerulo

Il rapporto fra crisi, vere, e fughe virtuali

Lost e le serie tv in generale rientrano nel campo della sociologia delle emozioni, «la corrente più à la mode delle scienze sociali: lo confermano libri, convegni, sezioni in associazioni scientifiche mondiali, corsi universitari» dice Cerulo. « Il successo di questa sociologia delle emozioni credo sia dovuto principalmente al fatto che la sociologia si concentra sulle modalità attraverso cui le emozioni vengono espresse: ossia attraverso quali comportamenti e linguaggi sociali si crea (e si distrugge) l’interazione, il legame sociale e, dunque, la società. Dopo Lost, ci volle Game of Thrones per tornare a riunire torme di fan in pub, appartamenti privati, associazioni, sale universitarie. E, non a caso, in un nuovo periodo di crisi mondiale: nel 2011 e negli anni seguenti, quando il mondo occidentale era sconvolto dal crollo di mercati e finanza e vi era, nuovamente, la necessità di rifugiarsi in un mondo in cui i problemi quotidiani potessero restare fuori, anche solo per 60 minuti. Come diceva Thomas S. Eliot: «L’essere umano non può sopportare troppa realtà»».

La bulimia di oggi

Lo stesso Cerulo è stato, a suo tempo, un fan sfegatato di Lost. Che cosa ci suggerisce, allora, il finale della serie? O, meglio, che cosa ci dice della nostra società e, in ultima analisi, di noi? «Sì, sono stato un fan di Lost sin dalla prima puntata» conclude l’esperto. «Con mia sorella e altri due amici ci davamo appuntamento per vedere l’evolversi della storia, le stagioni successive, la sorte dei personaggi. Abbiamo molto discusso sul finale: credo che gli autori volessero trasmettere la necessità di ritornare agli affetti privati, alla famiglia (intesa in senso lato), alle proprie radici per riscoprire sé stessi. In un mondo occidentale che, alla fine di Lost, si ritrovava ubriaco di globalizzazione e capitalismo – intesi nei loro peggiori difetti – tornare ai legami emozionali e affettivi costruiti nel corso della propria esistenza poteva permettere di mettere a fuoco il senso della vita. Tuttavia, vi è da sottolineare come, da Lost in poi, le serie tv abbiano occupato gran parte del campo della fruizione mediatica-televisiva. Con un effetto emotivo a mio parere pericoloso: la riduzione della sensibilità dell’utente a beneficio dell’eccitabilità. Siamo diventati bulimici di puntate: ne guardiamo una dopo l’altra senza soluzione di continuità, e senza lasciare che quello che abbiamo visto, ascoltato, percepito possa sedimentare nella nostra esperienza. In questo caso, credo che il rischio sia quello di un consumo vorace e continuo di emozioni che ci appartengono solo in parte e nei confronti delle quali, comunque, non ci concediamo tempo di praticare conoscenza. Tale mancanza di confidenza nei confronti delle emozioni potrebbe condurre a una diminuzione di quella strutturazione assiologica necessaria nel quotidiano tentativo di dare un senso alla realtà che ci circonda e nel nostro interagire con gli altri».

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