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Il fascino della distopia

Molte serie tv si ispirano a visioni cupe del futuro: generale pessimismo o campanello d’allarme?
Il romanzo di George Orwell «1984» è considerato uno dei capostipiti del genere distopico.
Luca GuarnerieRed. AgendaSette
12.02.2021 12:48

Immaginare il futuro è una prerogativa dell’essere umano. Che ha sempre guardato ad esso con ottimismo, nella speranza che possa regalarci soddisfazioni maggiori rispetto al presente. Ed è stato fondamentalmente questo innato ottimismo a guidare l’umanità durante la sua fase di crescita, il suo sviluppo e il progresso. Un ottimismo che però ultimamente nella narrativa sembra venire meno, lasciando ampio spazio a visioni pessimistiche. Basta osservare la produzione cinematografica e delle serie tv (attualmente il tipo di narrazione più popolare) che è zeppa o di cupi scenari futuristici, con tanto di pianeta devastato da guerre, catastrofi naturali e micidiali virus, o di scenari forse meno cruenti ma altrettanto pericolosi nei quali è la tecnologia a dominare il nostro mondo in misura tale da ridurre l’uomo a un ruolo di comparsa. Stiamo sempre più assistendo, insomma, al trionfo del genere cosiddetto «distopico», che mai come in questo periodo sembra affascinare tutti. La ragione? Forse perché, a causa del difficile momento che stiamo vivendo, immaginare un futuro apocalittico ci rassicura, fa sembrare il presente migliore, nonostante le problematiche che lo caratterizzano. Ma forse c’è una ragione più profonda: la prospettiva di un futuro terribile può infatti fungere da campanello d’allarme risvegliando le coscienze e quell’impegno - sociale, politico, intellettuale - che la molliccia contemporaneità ha sopito e che, grazie a queste sollecitazioni, potrebbe essere risvegliato.

Una scena de «Il racconto dell’ancella», serie tv basata sul romanzo distopico della canadese Margaret Atwood.
Una scena de «Il racconto dell’ancella», serie tv basata sul romanzo distopico della canadese Margaret Atwood.

Le origini della distopia
Questa visione pessimistica del domani tuttavia non è un elemento nuovo ma un qualcosa che ci portiamo appresso da sempre e che ha avuto un notevole impulso dopo che, nel XIX secolo, il filosofo ed economista britannico John Stuart Mill coniò il termine «distopia» quale contrapposizione al concetto di «utopia» elaborato tre secoli prima dal suo conterraneo Thomas More (Tommaso Moro). Se More con «utopia» (dal greco ï, «non» e ôüðïò «luogo») intendeva identificare un assetto politico, sociale o religioso che non trova riscontro nella realtà, ma da proporre come ideale e come modello, Mill con «distopia» (dis, «cattivo» e ôüðïò «luogo») andava in direzione opposta, prefigurando una realtà immaginaria del futuro in cui, sulla base di tendenze del presente percepite come altamente negative, si preconizza un’esperienza di vita indesiderabile o spaventosa. Ponendosi in contrapposizione a un’utopia, una distopia viene dunque prefigurata come l’appartenenza a un’ipotetica società o a un ipotetico mondo caratterizzati da alcune espressioni sociali o politiche opprimenti, spesso in concomitanza o in conseguenza di condizioni ambientali o tecnologiche portate al loro limite estremo. La distopia non è tuttavia il contrario dell’utopia in quanto non confuta la sua idea, bensì focalizza l’attenzione sulla degenerazione di tendenze, costumi o ideali già presenti nella società contemporanea.

I grandi cambiamenti favoriscono il nascere di visioni distopiche

È dunque abbastanza facile comprendere come in periodi densi di cambiamenti, di contraddizioni e di degenerazioni ad essi legati come quelli che la società occidentale ha attraversato negli ultimi due secoli, delle visioni distopiche del futuro abbiano iniziato a prendere piede. Soprattutto durante il secolo scorso, quando a seguito della pubblicazione di romanzi come Il padrone del mondo di Robert Hugh Benson (1907), Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932) e soprattutto 1984 di George Orwell (1949), la distopia si diffuse su larga scala trasformandosi nel soggetto di molte altre espressioni artistiche e di comunicazione - dal fumetto al film alla televisione - principalmente con lo scopo di denunciare una tendenza, o di un costume, oppure ancora di una prassi in auge che al momento possono sembrare innocue ma che sono pronte a stravolgere, negativamente, le nostre vite.

Visioni esagerate e tecnofobia
Nelle opere distopiche le conseguenze vengono sempre volutamente esagerate, magari facendo intendere che a quella situazione si è arrivati in modo graduale o, peggio ancora, di fronte al silenzio e all’indifferenza della società. Ed ecco che il timore per quello che può accadere nel futuro può addirittura superare il dolore per eventi narrati dalla memoria storica: ciò che potremmo verosimilmente vivere sarà peggiore di quello che l’umanità ha già sperimentato. È questo che spinge il messaggio moralizzante di fondo più comune della distopia: «Datti una mossa a cambiare le cose, prima che sia troppo tardi!». A diffondere visioni distopiche, in tempi più recenti, ci ha poi pensato il sottile diffondersi della tecnofobia, della paura delle nuove tecnologie o di quanto l’uomo possa nuocere a se stesso e agli altri attraverso i mirabolanti prodigi della scienza e della tecnologia che, crescendo esponenzialmente, arriveranno a un punto in cui l’essere umano non sarà più in grado di comprenderla appieno. Questa «fine del mito del progresso» non è nulla di nuovo: è infatti un tema che si ripete in ogni periodo denso di cambiamenti ma attualmente amplificato da fattori quali il concetto di privacy, di invasività della tecnologia, di intossicazione (social) e di conseguente alienazione (sociale).

I protagonisti di «Brave new world», serie tratta dall’omonimo e celebre romanzo di fantascienza di genere distopico di Aldous Huxley.
I protagonisti di «Brave new world», serie tratta dall’omonimo e celebre romanzo di fantascienza di genere distopico di Aldous Huxley.

La nostalgia del presente
Nell’opera distopica, inoltre, uno dei tratti principali è la scarsa umanità: l’uomo del futuro è spesso raffigurato come un essere poco più empatico di un automa all’interno di un quadro nel quale il concetto della «retrospettiva rosea» viene ribaltato sul futuro. Così, come sovente siamo portati a considerare i tempi della nostra infanzia migliori di quanto in realtà fossero, il racconto di un futuro in cui quei «valori» sono andati perduti viene percepito come una sua naturale conseguenza, portando, come dicevamo in apertura, il pubblico nella strana situazione di avere nostalgia del presente. La distopia ha poi una forte tensione narrativa: il pericolo dipinto in questo tipo di visione è sempre realistico. Ciò porta a una forte e naturale immedesimazione che finisce poi per toccare un altro tasto sensibile: quello della romantica ribellione, della lotta per un ideale, per le battaglie sociali, per la libertà - che sono poi ciò per cui lotta il protagonista di ogni distopia e dalla cui parte è naturale schierarsi emotivamente.
Quello su cui la distopia costruisce inoltre il suo fascino è il cinismo. La narrazione distopica è infatti una cinica trasposizione della società odierna. E l’indole dell’uomo comune nella finzione distopica non è solo cinica, ma violenta e sadica. Calcarne le tinte, esagerarne gli aspetti che intimoriscono per farne uno strumento di denuncia ha sempre costituito il volano di questo genere.
Le opere distopiche, tuttavia hanno anche un rovescio della medaglia e la loro denuncia può essere letta in diversi modi: a volte è ambigua, fumosa e può cambiare significato a seconda di chi la legge (ne sono un esempio quei circoli di complottisti che riempiono i social di citazioni e immagini estrapolate da universi distopici). Ma anche questi pericolosi effetti collaterali non fanno altro che confermare il successo di questa tendenza.

Potete leggere l’articolo integrale, scoprendo altre nuove serie tv di genere distopico, sulla rivista AgendaSette n.6, in allegato venerdì 12 febbraio al CdT e disponibile sull’APP CdT Digital.

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