Televisione

Pacchiano ed esagerato: ecco perché Bridgerton è un successo

La serie di Shonda Rhimes per Netflix torna indietro nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo per parlare di amore, scelte e perfino identità
Marcello Pelizzari
12.01.2021 19:29

Bridgerton è pacchiano. Molto, forse troppo. Ma è un prodotto di successo e perciò è bene parlarne. Di successo anche perché, alle spalle, ha due colossi importanti: Netflix da una parte, Shonda Rhimes (vi dice niente Grey’s Anatomy?) dall’altra. E poi perché sfrutta uno stratagemma vecchio quanto il mondo, tuttavia ancora efficace: modernizzare una storia ambientata nel passato. Ci era riuscito, a suo tempo, Baz Luhrmann con la sua rivisitazione di Romeo e Giulietta. Ci riesce, sfruttando più di una licenza poetica, questa serie appunto pacchiana e tremendamente kitsch. Balzata in cima alle classifiche più o meno ovunque nel mondo, Svizzera compresa.

Glamour e decadenza
Bridgerton è ambientata nell’Inghilterra del diciannovesimo secolo. Ha ben poco di storico, va da sé, se non il glamour, gli eccessi e la decadenza dell’aristocrazia. Oltre agli intrighi, ai sotterfugi, alle lotte intestine e non. Tutte qualità, se così si può dire, dei nobili. È una serie in costume, anche se colori sgargianti e toni ne fanno decisamente più un’allegoria che una rappresentazione veritiera del periodo. O, se preferite, una rilettura pop. La serie è l’adattamento di un libro, Il Duca e io, primo di una serie di romanzi che Julia Quinn ha dedicato ad una famiglia dell’alta società londinese. I Bridgerton, voilà. Una di loro, Daphne, finisce per sposare il bello e altezzoso duca di Hastings.

La questione afroamericana
La trama, tuttavia, non catalizza l’interesse dello spettatore. Quantomeno, non è l’elemento portante. E le polemiche scatenatesi attorno ad una scena che, a detta di molti, mostrerebbe uno stupro appaiono sterili. Resta, e colpisce, la maestosità dei costumi: 7.500, leggiamo, gli abiti diversi indossati per un totale di appena otto episodi. Roba da far girare la testa. A colpire, poi, è il cast. Ci riferiamo alla presenza di attrici e attori di origine afroamericana, a cominciare da Golda Rosheuvel che interpreta la regina Carlotta. E qui, quasi tutti, si sono chiesti: ma l’Inghilterra del diciannovesimo secolo non era profondamente classista e, di riflesso, razzista? Eccome. Perché, allora, mistificare fino a questo punto la realtà di quel tempo? Semplice, lo showrunner Chris Van Dusen ha voluto creare una serie il più possibile vicina al mondo in cui viviamo noi. Quello del ventunesimo secolo, per intenderci. Di qui la necessità di portare sullo schermo (anche) tematiche quali l’identità. «Vogliamo che il pubblico possa riconoscersi in quello che vede» ha spiegato Van Dusen. «Il discorso sulla razza è parte dello show quanto quelli sul genere e sulla classe». E per promuovere il concetto di uguaglianza Bridgerton utilizza proprio il personaggio della regina Carlotta, che a detta di molti storici era - citiamo - «di razza mista». La moglie di Re Giorgio III aveva ascendenti portoghesi e legami con l’Africa. «Questo aspetto mi ha portato ad esplorare una possibilità» ha aggiunto Van Dusen. «Cosa sarebbe successo se la regina Carlotta avesse usato il suo potere per elevare altre persone con le sue stesse origini nella società, dando magari loro titoli e ducati?».

Gossip ante litteram
Alla fine, Bridgerton vuole dimostrare che dopo duecento e oltre anni di storia niente è cambiato, per gli uomini come per le donne. C’è chi, addirittura, si è spinto a paragonare la spasmodica ricerca di un marito dipinta nella serie ai meccanismi che regolano app come Tinder. Per tacere del gossip, ad immagine di Lady Whisteldown e delle sue cronache tanto temute quanto apprezzate. È lei, sorta di tabloid ante litteram ma diciamo pure aggregatore social, a definire e guidare i gusti dell’opinione pubblica. Pacchiano, sì. Ma con gusto e testa: Bridgerton è un prodotto studiato nei minimi dettagli.