The Blues Brothers, i 40 anni di un mito esploso in ritardo

Come nasce un mito? Nel modo più inatteso, sosteneva il filosofo francese Claude Lévi-Strauss. E in effetti uno dei miti musical-cinematografici dell’ultimo mezzo secolo - i Blues Brothers, la cui apparizione sui grandi schemi americani avvenne proprio quarant’anni fa, nell’ultima settimana di giugno del 1980 - è proprio frutto se non del caso, di una serie di combinazioni che, sommatesi nel tempo, hanno trasformato quello che originariamente doveva essere un semplice divertissement in un fenomeno la cui ondata è ben lungi dall’essersi esaurita.
Gli inizi al sabato sera

La mirabolante avventura della coppia inizia infatti quasi per gioco quando due giovani comici, il canadese Dan Aykroyd e lo statunitense di origini albanesi John Belushi, entrambi facenti parte del cast di un nuovo programma satirico della rete televisiva NBC (il Saturday Night Live), decidono nella seconda metà degli anni Settanta di creare uno sketch che, su modello di Stanlio e Ollio e di Gianni e Pinotto, sfrutti da un lato la loro diversità fisica (magro e allampanato il primo, piccolo e tozzo il secondo) e dall’altro il loro comune amore per la musica «black». Nascono così i due fratelli Jake (Belushi) ed Elwood (Aykroyd) Blues che vestiti con un completo nero e camicia bianca, cappello in testa e Ray-Ban modello Wayfarer a celare gli occhi, sono protagonisti di strampalate scenette a sfondo musicale. Scenette che, in tv, piacciono immediatamente spingendo uno dei responsabili musicali del programma (il tastierista Paul Shaffer, poi divenuto celebre per il suo lungo sodalizio con il re dei talk show David Letterman) a creare una vera band a loro supporto composta, oltre che da lui stesso, da alcuni «vecchi leoni» di quel R&B degli anni Sessanta che, in anni in cui imperava la nascente discomusic, erano caduti un po’ in disgrazia, come gli ex Booker T & the MG’s Steve Cropper e Donald Dunn e l’ex sezione fiati dei Blood, Sweat & Tears. Da lì allo sviluppo di uno spettacolo musical-cabarettistico da portare in giro sfruttando la popolarità televisiva il passo è breve, così come l’incisione di un disco, A Briefcase Full of Blues, che, composto da riletture di classici soprattutto del Memphis Sound, balza inaspettatamente nel 1978 ai vertici delle classifiche americane.
Dalla tv al grande schermo

Il fenomeno Blues Brothers è dunque nato e la sua portata negli States è tale che si decide di sfruttarlo anche su grande schermo. Per realizzarlo viene chiamato John Landis, un giovane regista che proprio in quel periodo aveva diretto Belushi in una commedia giovanile-demenziale di grande successo: Animal House, anch’essa legata ad un fenomeno televisivo satirico, il National Lampoon. Le lavorazioni della pellicola sono però più laboriose del previsto per via soprattutto degli eccessi di Belushi, i cui problemi con alcol e droga rallentano la lavorazione e fanno lievitare i costi di oltre il 40% del budget previsto. Alla fine però i lavori vengono ultimati e nella terza settimana del giugno 1980 il film arriva nelle sale cinematografiche americane. Dove però, contrariamente alle attese, fa flop, complici anche una serie di recensioni che lo stroncano seccamente: il «New York Times» definisce infatti la pellicola «una saga presuntuosa», il «Washington Post» usa il termine «imbecille stramberia», «Variety» bolla i Blues Brothers come una pallida copia di Gianni e Pinotto e l’«L.A. Times» parla di un «disastro da 30 milioni di dollari» (in riferimento al budget ampiamente sforato dalla produzione) accomunando il film ad un altro fiasco collezionato da Belushi in quello stesso periodo: 1941: Allarme a Hollywood diretto da un giovanissimo Steven Spielberg (peraltro presente con un cameo nella pellicola).
Il problema razziale

Ad «aiutare» The Blues Brothers a non sfondare negli States, la presenza nel cast di un gran numero di personaggi di spicco della scena musicale afro-americana che spinse un importante distributore e proprietario di sale cinematografiche di Los Angeles a non mettere in programmazione il film perché - come dichiarò al regista Landis - non voleva attirare spettatori di colore nei ricchi quartieri prevalentemente bianchi come Westwood e perché riteneva che gli spettatori di quelle zone non sarebbero andati a vedere un film con vecchie stelle musicali nere (alla faccia di chi continua a sostenere che il problema razziale negli USA non esiste...). Anche in Europa (dove la pellicola arrivò solamente a novembre) le cose non andarono inizialmente molto meglio: il film passò infatti sostanzialmente sottotraccia un po’ perché la coppia John BelushiDan Aykroyd era sostanzialmente sconosciuta (il Saturday Night Live nessuno lo conosceva e anche Animal House, che aveva dato la fama cinematografica a Belushi, da noi non era andato oltre un piccolo successo di nicchia) ma anche perché la sua colonna sonora arrivava in un momento in cui imperavano altri generi. Era infatti il periodo della disco music, della new wave e del primo synth pop britannico che riempivano le programmazioni radiofoniche e le scalette delle discoteche, lasciando poco spazio al R&B un po’ demodé proposto dai Blues Brothers e dagli artisti che li circondavano nella pellicola.
Un tragico rilancio

Per risollevare le sorti della pellicola e trasformarla nel mito odierno si dovette attendere purtroppo un fatto tragico: la morte, il 5 marzo 1982 a Hollywood, di John Belushi, stroncato a soli 33 anni da una miscela di cocaina ed eroina. Fu proprio la scomparsa dell’attore e cantante e l’eco che suscitò (in America e, di riflesso, in Europa) la repentina conclusione della sua «vita spericolata» a rimettere al centro dell’attenzione la pellicola che iniziò ad essere trasmessa in televisione e divenne un successo nell’allora nuovo mercato dell’homevideo. Favorendo anche il recupero della sua colonna sonora sia a livello radiofonico sia nei club, in concomitanza anche con l’inizio di un’ondata revivalistica di quegli anni Sessanta da cui proveniva tutto il repertorio dei fratelli Blues. A trasformare definitivamente in mito i Blues Brothers ci pensò poi la «banda» che li accompagnava e che, pur orfana dei suoi due leader (anche Aykroyd, dopo la morte di Belushi, abbandonò il progetto concentrandosi sul cinema), sostituiti comunque da frontman di grande carisma, ha portato avanti la loro musica con scatenati e coinvolgenti show in cui tutta l’energia di Jake & Elwood ha continuato a propagarsi fino ai giorni nostri e continuerà sicuramente a divertirci anche in futuro. Come on, oh baby don’t you wanna go...
Un grande rilancio per i "vecchi leoni" della musica black
Considerato oggi come un caposaldo della comicità cinematografica, The Blues Brothers deve parte della sua enorme popolarità alla sua colonna sonora giudicata dalla critica come una delle più belle di tutti i tempi. E che ha avuto un vantaggio e un merito: sfruttare personaggi che in quel momento vivevano un periodo di offuscamento ma che poi, grazie al film, sono ritornati in auge. È il caso di James Brown (il reverendo Cleophus James, nel film) che in quel periodo era più impegnato ad entrare e ad uscire dalle patrie galere per problemi di violenza/droga/evasione fiscale che a fare la «Sex Machine», o Ray Charles (il proprietario del negozio di strumenti musicali dove si riforniscono i Blues Brothers) che da alcuni anni non riusciva più a piazzare un disco in classifica, o ancora Aretha Franklin (la moglie del chitarrista Matt Murphy) che proprio grazie al remake della sua Think contenuta nel film riuscì a ritrovare un contratto discografico di prestigio. Per non parlare dei grandi vecchi Cab Calloway e John Lee Hooker che grazie alla loro presenza nel film ebbero modo di farsi conoscere dalle nuove generazioni. Ma c’è stato anche chi, dai Blues Brothers, è riuscito a ricavare grandi benefici pur non essendo presente nella pellicola. Il caso più lampante è rappresentato da Solomon Burke, autore della canzone più rappresentativa del repertorio dei Fratelli Blues, Everybody Needs Somebody to Love, che prima che fosse ripresa da loro era praticamente caduta nel dimenticatoio, così come la figura del suo corpulento autore che solo in seguito si è visto riconosciuto internazionalmente come uno dei «re» del soul. Lo stesso discorso vale anche per il padre del blues Robert Johnson, divenuto finalmente celebre grazie alla trascinante versione dei BB di Sweet Home Chicago che ha fatto da sottofondo ad uno dei più leggendari inseguimenti della storia della cinematografia fino a... Clint Eastwood, il Rawhide della ballatona country&western che la «banda» eseguì per placare l’inferocito pubblico «ruspante» del Bob’s Country Bunker...