«Tra i romanzi di successo del Novecento»

Da Guido Da Verona ad Andrea Camilleri passando per Annie Vivanti, Liala, Pitigrilli, Giovanni Guareschi, Brunella Gasperini, Giorgio Scerbanenco, Oriana Fallaci e Stefano Benni: sono i «Dieci nel Novecento» (Carocci editore), scelti dal critico e narratore Bruno Pischedda, per rappresentare «il romanzo italiano di largo pubblico dal Liberty alla fine del secolo». Ma perché questi dieci, quasi tutti connotati come scrittori di «genere»: una rivalutazione a posteriori? «Le due cose insieme, ma accettando un inevitabile conflitto» – conferma Bruno Pischedda che insegna letteratura e cultura dell’Italia contemporanea all’Università degli Studi di Milano. Lo abbiamo intervistato.
Vediamo alcuni nomi da vicino: Guido Da Verona, un grande successo commerciale, ma oggi che resta? E Annie Vivanti, che valore possiamo attribuire oggi alla sua opera che, se non fosse per la relazione con Carducci, non la ricorderebbe nessuno?
«Non c’è nulla di più evanescente, per un libro, del successo commerciale. Su questo siamo d’accordo. Ma Da Verona non riscaldava solo le sartine, accompagnava anche i soldati in trincea, nella Prima guerra mondiale, e dilagava presso estese fasce di ceto medio-colto. Poi, per quanto fascista, entrò in conflitto con il fascismo; poi ancora cadde l’astro dannunziano, e oggi di lui si porta scarsa memoria. Idem per la Vivanti, che seppe destare entusiastiche emulazioni, le “vivantine”, ed è ormai quasi del tutto dimenticata: quasi del tutto, perché in Inghilterra e in America proprio in questi anni si moltiplicano studi e riedizioni».
Liala è forse la capostipite del romanzo sentimentale, o rosa. Opera di consumo, così come i libri di Brunella Gasperini, anche se fornivano divertenti ritratti dell’Italia del suo tempo?
«Liala e Gasperini contribuiscono ad armi pari ad un medesimo genere, appunto il romanzo rosa. Ma un conto è Signorsì, viriloide, pseudo aristocratico, filofascista, se badiamo alla versione originale. Un altro conto è L’estate dei bisbigli, 1956, che stempera il passionalismo funereo nell’ironia, nel linguaggio giovanilistico. Nemmeno la Gasperini sfugge a un sovrappiù pedagogico; però dalla ragazza tira fuori la donna, e non l’adultera suicida. Diciamo così: annidano entrambe nel best seller di stagione; declinandolo tuttavia nel senso di un genere molto codificato. E in modo chiaro rendono del genere le varianti intrinseche, mai eternamente uguali».
Pitigrilli, più che come scrittore è ricordato come collaboratore dell’Ovra, la polizia politica fascista. Oltre alla leggibilità, e a qualche aforisma, che Novecento ci rimandano i suoi cinquanta romanzi?
«Più di Da Verona, che pure gli era maestro, Pitigrilli ha introdotto i lettori e soprattutto le lettrici al sesso. Non è molto, e non è poco. La sua stagione d’oro è racchiusa negli anni Venti: in un romanzo come Cocaina, e nella sfilza di raccolte come Mammiferi di lusso, La cintura di Castità, La vergine a 18 carati. L’opera di cui mi sono occupato, Dolicocefala bionda, 1936, documenta una fase ulteriore; quando la vena provocatoria è in via di esaurimento, e incuriosisce il misto incongruo di dandysmo trasgressivo e vagheggiamenti di una normalità impossibile».
Giovanni Guareschi, grazie anche al cinema, e Giorgio Scerbanenco, l’inventore del giallo italiano, sono ancora sulla breccia con i loro libri. Ma perché si perpetua ancora oggi la popolarità di Don Camillo e il clima noir creato da Scerbanenco?
«Mi sembrano due sopravvivenze diverse. Guareschi continua ad avere un pubblico tardo-televisivo grazie alle fisionomie indimenticabili di Gino Cervi e Fernandel; ma il resto dell’opera è andato in frantumi, nonostante la mole davvero ragguardevole di studi che continuano ad esserle dedicati. Provo a ragionare, nel libro, sul senso di questa sopravvivenza, e su uno spessore nostalgico che non è esattamente il medesimo dell’origine.
Scerbanenco, dal canto suo, ha aperto una via hard boiled che ancora miete consensi tra gli scrittori e il pubblico americanista. Venere privata, 1966, è in ogni caso un romanzo composito, che dispensa a piene mani scazzottate siparietti erotici sadici, anime vendute: ma tutto ciò frammisto a molto psicologismo e a una buona dose di tecniche che risalgono al feuilleton ottocentesco. Di tanto le apparenze ingannano».
L’inclusione di Oriana Fallaci in questa retrospettiva novecentesca vuole evidenziare il lato romantico (ma sempre battagliero) della celebre giornalista?
«No, vuole evidenziare la complicatezza irrisolta di un best seller nazionale e internazionale. Un uomo nasconde una pena difficilissima da medicare: vuole rendere l’apologia dell’amato, Panagulis, e insieme raffigurare un rapido crepuscolo della passione. Nel romanzo, Oriana sostiene di essere stata lo strumento involontario di un destino già segnato, però lasciando affiorare pesanti sensi di colpa per non aver saputo agire diversamente. E a questo risultato ogni cosa dovrebbe concorrere, la tragedia antica e la fiaba, il controcanto comico, il lato freudiano, l’aspetto concitato e quasi filmico di tante scene. E poi c’è la questione dello stile, a metà via tra il cronachismo spiccio, disadorno, e il “gridato” mazziniano-guerrazziano. Un uomo è letto ancora oggi, e piace, nonostante i suoi evidenti scompensi. Sta qui il mistero più insidioso delle opere che giudichiamo di consumo. D’altronde è un romanzo in cui Oriana partecipa per intero, con tutti i suoi slanci e le ricadute polemiche. Si potrebbe ritenere che fa da ponte tra la stagione azionista e socialisteggiante di Niente e così sia, e la furia scomposta che ha infine la meglio nella cosiddetta trilogia anti-islamica».
Stefano Benni e Andrea Camilleri sono due colonne della letteratura umoristica e poliziesca, ancora attivissimi e seguiti da moltitudini di lettori. In che cosa la loro opera si riallaccia al recente passato novecentesco, quali fili ancora li legano al XX secolo e quali prospettive schiudono le loro ultime opere?
«Difficile dire quali siano le prospettive, per due autori di 72 e 94 anni. Militano in due campionati diversi, l’uno come umorista renitente all’ordine, l’altro come narratore storiografo e giallista. Ma molti sono anche i piani comuni: come negare a Camilleri la patente di fine canzonatore quanto ai vizi italiani, o di ribelle rispetto al quadro sociale costituito?
Certo c’è in Benni una nota nostalgica, e talora apocalittica (come in Terra!, del 1983), che Camilleri asseconda con molta più discrezione. Il passaggio strategico, per Benni, è dalla allegria scoppiettante di Bar sport alla tristezza snervata di Bar sport Duemila. Per il siciliano le cose vanno diversamente: a una terra che sta scontando l’ultima normalizzazione borghese, e che purtuttavia è sconciata dal crimine mafioso, corrisponde un impulso di vitalità indomita; anche quando questa vitalità si scontra con i bassopiani della vita di coppia e con un protagonismo femminile difficilmente tenuto a bada. Basta vedere il primo episodio della lunga saga che ha per protagonista Montalbano, La forma dell’acqua, 1994: 335.000 copie vendute in un decennio, da solo, e solo in Italia. Basta vedere, cioè, come interviene la fidanzata Livia una volta risolto il caso: «Ti sei autopromosso, eh? Da commissario a dio, un dio di quart’ordine, ma sempre dio». Non mancano le antitesi elementari, le deviazioni o riempimenti a carattere appendicista, ma si deve ammettere che Salvo Montalbano è già tutto qui, presunzioni e contenimenti mal sopportati: testardaggini, arguzie, abbandoni pensosi».