Un «Albero genealogico» dalle radici ben salde

Fa cinquant’anni e sembra scritto ieri. Certo gli emigranti non consegnano più aneddoti e confidenze al servizio postale, se la sbrigano meglio con Skype e con WhatsApp. Neppure s’imbarcano come la zia Angelica o il Barbarossa - affamati di pane, di dollari, di sogni americani - per traversate oceaniche interminabili nella nostra era turbinante di voli low-cost. Però le vicende e le considerazioni, le necessità e la voglia di cercare altrove quanto non si ottiene a domicilio sono proprio sempre le stesse. S’incatena all’oggi perfino quella storia di risparmi depositati nella banca gallica che sta per fallire e chissà se li rivedi più. Non sono cadute le foglie, dunque, non sono marcite le radici all’Albero genealogico di Piero Bianconi, pubblicato nel 1969 a Lugano dalle Edizioni Pantarei. È florilegio familiare e al tempo stesso archetipo questo libro di ritrovamenti aviti attraverso lettere e reminiscenze, documenti e tradizioni orali, luoghi fisici e mentali. È resoconto cronachistico e scavo interiore, psicologico. È il testo che rivela nel Bianconi di Minusio (1899-1984), svezzato a Mergoscia, esploratore onnicomprensivo in velocipede, scrutatore infaticabile del reale, coscienza critica di una decadenza però consapevole dell’ammorbidirsi esistenziale, la dote di testimone a carico di un’umanità prioritariamente ticinese che cambia pelle dalla contadinanza alla finanza, dalla coltura alla cultura di massa, dalla guerra per il necessario all’effimero, dall’ambiente naturale all’urbanizzazione cementifera e mefitica, dalla religione alla spiritualità. «Uno dei libri più importanti della Svizzera italiana» lo definisce Renato Martinoni: scrittore, saggista, professore emerito di Letteratura italiana all’Università di San Gallo e studioso del prosatore. «Uno di quelli che meglio resistono al tarlo impietoso del tempo». Mostra tanti pregi, «più di un merito. In primo luogo è scritto da un autore raramente eguagliato per la qualità della scrittura. In un’epoca segnata dal grigiore stilistico resta piacevole leggere pagine redatte con sapienza e gusto». Poi, sottolinea il professor Martinoni, si tratta del «primo vero libro narrativo che, da noi almeno, parla di emigrazione. Prima di allora questo fenomeno socio-economico e culturale, tanto importante nel nostro passato, era rimasto ai margini della letteratura svizzero-italiana. Un vero tabù». Nel giudizio schietto di Piero Bianconi, «pare una storia di paesi sottosviluppati (come infatti erano), una invenzione del più truce romanticismo, non è che la squallida verità, la verità di quella vita che considero con un misto di commiserazione e di deprecazione: una vita atroce, non ci fosse stata la certezza del cielo; ma ci durava tenacemente anche chi quella certezza non aveva. È una vita dalla quale mi sento remotissimo, escluso». Bisogna infatti aggiungere, spiega Martinoni, che «il libro bianconiano non è solo storia, anche se insiste sul valore della memoria. È una continua riflessione sul proprio carattere, sul senso della vita, sulle contraddizioni dell’uomo. Che interessi i lettori anche al di fuori della Svizzera italiana lo dice il fatto che è stato recentemente ripubblicato in tedesco (da Limmat Verlag, Zurigo) e che, oltre a essere stato edito in francese e in ungherese, qualcuno lo sta traducendo in lingua georgiana». Tra le sue pagine, dopotutto, si trovano pure consigli spicci eterni.
«Meglio vivere in pace»
Al livello dello zio Gottardo che, «mandando a casa cinquanta franchi dopo un paio d’anni di California», raccomanda: «Comperate da mangiare e non patite la fame, vivete in pace e unione che si campa dieci anni di più, compatitevi l’uno con l’altro, è meglio vivere in pace che essere sempre arrabbiati, quando avete bisogno di un soldo scrivete». Il nonno («savio uomo contento del poco o magari del niente, misurava tutto alla sua monacale frugalità, faceva il passo secondo la gamba o meglio un pochino più corto») inserisce tra le «esortazioni: madre amate mia moglie e voi moglie amate mia madre e vivete in pace e non mangiate li miei sudori in discordia, sarebbe il più grave torto che mi fate». La nonna dà alla luce la madre in una stalla, «più abbandonata e sola della Madonna». Il matrimonio dei genitori è combinato in fretta. «Padre, cosa mi dite del Lisandro che m’ha domandata?». «Se non ti interessasse non me lo domanderesti di certo». Dalle lettere «dei fratelli e della sorella in California risulta che nessuno era stato informato. Nozze alla buona, però a tavola si ritrovarono quaranta commensali a mangiar polenta e luganighe e a far festa agli sposi, che il pomeriggio andarono a far fieno, e la sera lo sposo salì all’alpe, dietro il Madone; il viaggio di nozze lo fecero parecchio tempo dopo, una gita in vapore fino a Arona, con pranzo sul battello». La zia suora si chiude in convento «non certo perché i giovanotti dei Benitt se ne andavano». No, «aveva ferma la vocazione e la spuntò contro la volontà dei suoi di casa che erano avversi. Aveva scritto al fratello Giuseppe domandandogli il denaro necessario (diceva non so più che predicatore francese del Seicento che ci sono ragazze non abbastanza ricche per poter far voto di povertà)». Partito garzone in una bottega di stoffe e arrivato docente liceale, Bianconi raccoglie da trasferte fiorentine e romane alcune fraternità intellettuali (Carlo Bo, Piero Bargellini, Carlo Betocchi, don Giuseppe De Luca) alimentatesi nella redazione della rivista «Il Frontespizio» edita da Vallecchi, che vanno sommate a una virile indole polemica. Traduce Baudelaire, Balzac, Flaubert, Goethe, Rousseau, Voltaire. Scrive moltissimo e su soggetti svariatissimi: poeti (Carducci, Pascoli), posti (campanili, ponti, grotti), arte (Borromini, Bruegel, Bosch, Correggio, Grünewald, Lotto, Piero della Francesca), attualità («Occhi sul Ticino», «Ossi da mordere», «Gocce sui fili», «Diario del rimorso). Compare tra i fondatori, nell’ottobre 1944, dell’Assi (l’Associazione degli scrittori della Svizzera italiana).
Estraneo alle consorterie
Figura da non dimenticare, da non archiviare, da non lasciare a prendere polvere sugli scaffali, spiega Martinoni. «Per alcuni suoi libri narrativi: «Albero genealogico» primo fra tutti. Ma anche il traduttore ha avuto un ruolo molto importante. Certe sue versioni italiane di scrittori francesi sono rimaste ineguagliate. Non a caso alcuni grandi editori italiani continuano a riproporle a distanza di mezzo secolo e oltre». Poi, «Bianconi va ricordato per i suoi interventi critici contro la devastazione del territorio. È uno degli scrittori più importanti, ma non il più amato o conosciuto. Forse era un poco renitente. Ma soprattutto era fuori dalle sette e dalle ideologie. Vuoi mettere essere uno scrittore cattolico o di sinistra (o tutte e due: catto-comunista), nei decenni passati? Voleva dire avere dietro le spalle l’appoggio e la simpatia di tanta gente. Non necessariamente per questioni di qualità letteraria, ma per empatia ideologica. Lo scrittore di Minusio non ha mai goduto di questi appoggi e vive unicamente dei propri veri meriti».