Festival

Un film, tante storie di vita e di migrazione

Sul grande schermo va in scena Semret, nella vita reale c'è Keshi Kidane: ha lasciato l'Eritrea nel 2007 e oggi il Ticino è la sua casa
Jenny Covelli
11.08.2022 06:00

Semret è la protagonista del film che porta il suo nome. Un’opera che, è stata la stessa regista Caterina Mona a dichiararlo, è composta da molte storie reali, frutto di un lavoro di ricerca e di molti incontri personali. Dietro alla vicenda ci sono in realtà tanti racconti di vita che l’autrice ha voluto portare sul grande schermo. Storie di migrazione e d’integrazione. In Ticino vivono 1.190 eritrei (dati UST 2020). Tra loro c’è Keshi Kidane, arrivato in Ticino nel 2007. È fuggito dal suo paese in compagnia della moglie perché lì c’è la dittatura. Dal 1993, il Paese è governato da Isaias Afewerki, del Fronte popolare per la democrazia e la giustizia. Da allora non ci sono state elezioni e la Costituzione adottata nel 1997 non è mai entrata in vigore. Gli uomini sono obbligati a prestare un «servizio di leva nazionale» di durata indefinitamente estesa. Keshi Kidane cercava una vita migliore ed è partito. Dall’Eritrea all’Etiopia, poi in Sudan fino alla Libia, in 55 su un mezzo a due ruote attraverso il deserto. Poi l’ultima tappa fino all’Italia, a bordo di un gommone, 38 ore sull’acqua. «È stato un viaggio estenuante e difficile – racconta -. Ci chiedevano soldi a ogni tappa. Se non li avevi, finivi in prigione». Da Milano si sono incamminati verso Chiasso. Hanno pagato 600 euro per pochi chilometri, per raggiungere il centro di registrazione al confine e poi uno dei centri per richiedenti l’asilo della Croce Rossa. In seguito è arrivato il permesso. Kidane e la moglie Titti hanno potuto ricongiungersi con la figlia, lasciata ai nonni in Eritrea quando aveva solo un anno. Da allora sono trascorsi quindici anni. «Oggi il Ticino è la mia casa», dice. Anche se in Eritrea lavorava come insegnante ed era direttore di una scuola, mentre ora svolge lavori di pulizia.

Ho lasciato l'Eritrea nel 2007. E oggi il Ticino è la mia casa

All’inizio non è stato semplice: c’era l’ostacolo della lingua, una cultura completamente differente. Lui e Titti erano soli. «Lo sport è stato uno dei fattori di integrazione. Giocando a pallavolo ho conosciuto molte persone, gli abitanti di Massagno in cui viviamo sono diventati nostri fratelli e sorelle, per noi e per i nostri tre figli», di cui due nati in Ticino. E hanno fatto amicizia anche con altri connazionali, con cui condividono i ricordi di casa. «Anche se alcuni problemi che abbiamo cercato di lasciarci alle spalle ci seguono anche qui. All’interno della comunità permane infatti la divisione politica tra chi è favorevole al Governo e chi invece continua a condannare la dittatura, da cui in fondo siamo fuggiti». Ad ogni modo, la famiglia Keshi ha trovato la sua dimensione. La sua casa. «Mi ferisce solo che non posso andare in Eritrea. Ma quest’anno sono stato in Uganda, dove ho incontrato dopo 15 anni la mia mamma e mio fratello, mentre il mio papà è morto nel 2010. Sono stati momenti che mi hanno riempito il cuore».

Le donne spesso fungono da vettori di integrazione

Storie di migrazioni. Di persone che per arrivare in Svizzera hanno affrontato un lungo viaggio, in fuga dalle loro case. Qui hanno trovato una nuova vita, ma le difficoltà non sono mancate. Una su tutte: la lingua. Imparare l’italiano è fondamentale per iniziare un processo di integrazione. Ed è qui che entrano in gioco vari enti e associazioni, tra cui la non profit Il Tragitto, centro di socializzazione, di formazione e di sostegno alle famiglie e all’infanzia con sede a Locarno e Lugano. «Una goccia nel mare dell’integrazione ticinese», come la definisce la co-direttrice Fabia Manni, in cui la comunità eritrea si confronta con le stesse problematiche a cui sono sottoposti migranti di altre nazionalità. Che possono trovare corsi di lingua, anche mamma-bambino, aiuto nella ricerca di un impiego e attività di socializzazione i cui obiettivi sono la conoscenza del territorio, la pratica dell’italiano, la valorizzazione delle competenze personali, ma anche la discussione condivisa sull’educazione dei figli. «In molti casi facciamo da “ponte”, perché le persone instaurano con noi delle relazioni e possiamo indirizzarle verso l’infermiera pediatrica piuttosto che altri servizi di cui necessitano». L’associazione è frequentata principalmente da donne, che «hanno grandi competenze e spesso fungono da vettori di integrazione perché sono loro a occuparsi della famiglia, della casa, del contatto con l’esterno. Sono davvero una risorsa – aggiunge Manni -. Anche quando, purtroppo, si ritrovano confrontate con difficoltà strutturali, come trovare un servizio di accudimento per i figli più piccoli mentre loro frequentano una formazione».

In questo articolo: